Il profeta Isaia, vissuto nell’VIII secolo a. C., profetizzava un futuro in cui le armi fossero abolite e gli esseri umani abbandonassero la cultura della guerra, il preparare i giovani a combattere: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra» (Isaia 2, 4).
Il presidente Mattarella si ostina nell’affermare la necessità del riarmo per la difesa dell’Europa. Nell’ultima sua esternazione ha detto: “La spesa per dotarsi di efficaci strumenti che garantiscano la difesa collettiva è sempre stata comprensibilmente poco popolare.” In aggiunta il riarmo è necessario a “tutela della sicurezza e della pace, nel quadro di una politica rispettosa del diritto internazionale”; e questo riarmo, “poche volte come ora, è necessario”.
Quindi “armarsi” servirebbe “alla difesa e alla pace”, dando per scontato che le democrazie agiscano rispettose del diritto internazionale. Questo quadro è assolutamente smentito dai fatti, a ripercorrere la storia della seconda parte del Novecento. Nonostante la nascita dell’ONU, che nel preambolo della Carta costitutiva afferma di voler “salvare le future generazioni dal flagello della guerra”. La maggior parte delle guerre sono state agite nel mondo dalle potenze occidentali (includendo l’Unione delle Repubbliche sovietiche -URSS): Corea, Vietnam, Afghanistan¸ le guerre del Golfo e dal 2001, come guerre preventive in risposta al crollo delle Torri Gemelle, in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia. La Palestina, inoltre, è l’emblema del fallimento del diritto internazionale, messo sotto i piedi da Israele nei confronti del popolo palestinese, con la complicità dei paesi occidentali liberal democratici.
Sappiamo che il Presidente fa sfoggio del suo essere cattolico, ma talvolta dimentica o mette in secondo piano i pronunciamenti della Chiesa, a partire dall’Enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII e da quando Papa Paolo VI indisse la “Giornata della Pace” (1968), da celebrare ogni 1° Gennaio. Tradizione che si rinnova ogni anno e che è preceduta da un appello del Papa ad essa dedicato. Paolo VI pensava a questa “Giornata” non solo per i cristiani, ma per tutte le persone desiderose della pace che la volessero condividere. Nel “Messaggio per la I Giornata della Pace” – 1° Gennaio 1968, il Papa indicava «alcuni punti che la devono caratterizzare; e primo fra essi: la necessità di difendere la pace nei confronti dei pericoli, che sempre la minacciano:
- il pericolo della sopravvivenza degli egoismi nei rapporti tra le nazioni;
- il pericolo delle violenze, a cui alcune popolazioni possono lasciarsi trascinare per la disperazione nel non vedere riconosciuto e rispettato il loro diritto alla vita e alla dignità umana;
- il pericolo, oggi tremendamente cresciuto, del ricorso ai terribili armamenti sterminatori, di cui alcune Potenze dispongono, impiegandovi enormi mezzi finanziari, il cui dispendio è motivo di penosa riflessione, di fronte alle gravi necessità che angustiano lo sviluppo di tanti altri popoli;
- il pericolo di credere che le controversie internazionali non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali».
Pericoli che, invece di essere stati eliminati, oggi si fanno terribilmente attuali. Nel “Messaggio per la LIX Giornata della Pace” del 1° Gennaio 2026, Papa Leone XIV sottolinea alcuni aspetti che dovrebbero interessare i governanti, quelli che si dichiarano cristiani in primo luogo: «Quando trattiamo la pace come un ideale lontano, finiamo per non considerare scandaloso che la si possa negare e che persino si faccia la guerra per raggiungere la pace. Sembrano mancare le idee giuste, le frasi soppesate, la capacità di dire che la pace è vicina. Se la pace non è una realtà sperimentata e da custodire e da coltivare, l’aggressività si diffonde nella vita domestica e in quella pubblica.
Nel rapporto fra cittadini e governanti si arriva a considerare una colpa il fatto che non ci si prepari abbastanza alla guerra, a reagire agli attacchi, a rispondere alle violenze. Molto al di là del principio di legittima difesa, sul piano politico tale logica contrappositiva è il dato più attuale in una destabilizzazione planetaria che va assumendo ogni giorno maggiore drammaticità e imprevedibilità. Non a caso, i ripetuti appelli a incrementare le spese militari e le scelte che ne conseguono sono presentati da molti governanti con la giustificazione della pericolosità altrui. Infatti, la forza dissuasiva della potenza, e, in particolare, la deterrenza nucleare, incarnano l’irrazionalità di un rapporto tra popoli basato non sul diritto, sulla giustizia e sulla fiducia, ma sulla paura e sul dominio della forza» (i corsivi sono miei).
Rilevante anche il passaggio che, dopo aver citato i dati dell’incremento delle spese militari mondiale nel 2024 (aumentate del 9,4% rispetto all’anno precedente: 2.718 miliardi di dollari, pari il 2,5% del PIL mondiale), sembra riprendere la denuncia che l’“Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole” porta avanti da alcuni anni: «Per di più, oggi alle nuove sfide pare si voglia rispondere, oltre che con l’enorme sforzo economico per il riarmo, con un riallineamento delle politiche educative (il corsivo è mio): invece di una cultura della memoria, che custodisca le consapevolezze maturate nel Novecento e non ne dimentichi i milioni di vittime, si promuovono campagne di comunicazione e programmi educativi, in scuole e università, così come nei media, che diffondono la percezione di minacce e trasmettono una nozione meramente armata di difesa e di sicurezza».
Riproponendo il discorso sul disarmo integrale dei suoi predecessori (Giovanni XXIII, con la Pacem in Terris, la Gaudium et spes, la Costituzione conciliare su Chiesa e mondo contemporaneo; Papa Francesco, Fratelli tutti), il Papa afferma che le religioni devono rendere un servizio all’umanità sofferente «vigilando sul crescente tentativo di trasformare in armi persino i pensieri e le parole». «Le grandi tradizioni spirituali, così come il retto uso della ragione, ci fanno andare oltre i legami di sangue o etnici, oltre quelle fratellanze che riconoscono solo chi è simile e respingono chi è diverso. Oggi vediamo come questo non sia scontato. Purtroppo, fa sempre più parte del panorama contemporaneo trascinare le parole della fede nel combattimento politico, benedire il nazionalismo e giustificare religiosamente la violenza e la lotta armata. I credenti devono smentire attivamente, anzitutto con la vita, queste forme di blasfemia che oscurano il Nome Santo di Dio. Perciò, insieme all’azione, è più che mai necessario coltivare la preghiera, la spiritualità, il dialogo ecumenico e interreligioso come vie di pace e linguaggi dell’incontro fra tradizioni e culture» (i corsivi sono miei).
Non il riarmo, dunque è la via alla pace, caro presidente Mattarella, ma il disarmo, quella pace disarmante di cui parla il Papa. Nel messagio di quest’anno, il richiamo a chi ha responsabilità politiche è chiaro: «Quanti sono chiamati a responsabilità pubbliche nelle sedi più alte e qualificate, “considerino a fondo il problema della ricomposizione pacifica dei rapporti tra le comunità politiche su piano mondiale: ricomposizione fondata sulla mutua fiducia, sulla sincerità nelle trattative, sulla fedeltà agli impegni assunti. Scrutino il problema fino a individuare il punto donde è possibile iniziare l’avvio verso intese leali, durature, feconde” (Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), 63). È la via disarmante della diplomazia, della mediazione, del diritto internazionale, smentita purtroppo da sempre più frequenti violazioni di accordi faticosamente raggiunti, in un contesto che richiederebbe non la delegittimazione, ma piuttosto il rafforzamento delle istituzioni sovranazionali».
Caro Presidente ne prenda atto: “Si vis pacem, para bellum” perché non c’è altra via che conduca alla pace.










