Riprendiamo la recensione al libro di S-Connessioni precarie, “saggio – come scrive Morini – estremamente interessante e composito”, in cui si parla esplicitamente “del nostro essere alla presenza di una Terza guerra mondiale”. Nella nota a piè di pagina, redatta dal collettivo Effimera che ha pubblicato il contributo, viene segnalano che il volume recensito è stato curato da “un’area politica, attiva in diverse realtà italiane, che assume come motivo centrale del proprio intervento la condizione globale e differenziata del lavoro contemporaneo, l’intreccio tra patriarcato, sfruttamento e razzismo e il rifiuto della guerra in tutte le sue forme”_

Con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, il 24 febbraio 2022, la guerra ha conquistato il tempo presente, diventando cardine della politica, dell’economia e del diritto. La contesa armata, i sistemi di riarmo, la necessità di difesa, le opportunità di attacco, la logica della vendetta, la paura del nemico, la giustificazione della distruzione, con la ricomparsa di parole come genocidio ed ecocidio, si sono imposte alla nostra quotidianità. Il caso più clamoroso, in questa fase, è quello della Palestina, una contesa pluridecennale riesplosa in tutta la forza e tutto l’arbitrio delle armi, con Israele che ha fondato i propri progetti di rivalsa contro la violenza di Hamas sul martirio pubblico della popolazione civile, protetto dall’appoggio degli Stati Uniti e dell’Europa.

Il femminismo ricorda però un aspetto importante: la guerra è stata sempre parte della storia dell’umanità, essa non ha mai smesso di esistere, agìta sempre dalla componente maschile della società: “Combattere è sempre stata un’abitudine – dell’uomo, non della donna […] anche la maggior parte degli uccelli e degli animali li avete sempre uccisi voi, non noi […] È chiaro che dal combattimento voi traete un’esaltazione, la soddisfazione di un bisogno che a noi sono sempre rimaste estranee”[1], rimarca, tra il 1937 e il 1938, Virginia Woolf nelle prime pagine de Le tre ghinee. Donne desiderose di potere e perciò impazienti di assecondare il maschile sotteso al medesimo, come Ursula von der Leyer o Giorgia Meloni le quali ripetono l’identica frase sulla necessità di prepararsi alla guerra, non contraddicono ma rafforzano la sentenza con cui Woolf conclude questo suo primo ragionamento: “A causa di queste differenza tra noi, è impossibile capirci […] non siamo in grado di capire né gli impulsi, né le motivazioni, né l’etica che vi spingono a fare la guerra”[2].

Possiamo aggiungere che la dipendenza dall’alleanza con gli Stati Uniti aveva fatto scrivere ad Alba de Céspedes, nel 1994, in una postfazione al suo romanzo Dalla parte di lei (uscito nel 1949), che “la lotta, la prigione e per tanti la morte non erano servite che a fare dell’Italia un protettorato nordamericano”. Ebbene, tale amara considerazione si ritrova ampiamente confermata nel presente, all’interno di una complessità che ha escluso da tempo spartizioni dicotomiche di sfere di influenza sui mondi, il blocco dell’ex Impero sovietico e quello dell’Occidente, eppure ha di fatto aggravato il problema della perdita di autonomia e di autodeterminazione dell’Italia e insieme dell’intero continente europeo, ridotte dagli Stati Uniti a essere qualcosa di simile alla “filiale di un supermercato”[3].

Infine, la guerra non ha mai taciuto non solo lontano e altrove ma proprio nel cuore dell’Occidente anche se abbiamo provato a distrarci e far finta di non vederla: “Nei commenti sulla guerra in Ucraina mi ha colpito l’insistita ripetizione sul ritorno della guerra in Europa dopo più di settant’anni” scrive Maria Luisa Boccia, ricordando che sui territori europei lo scontro armato a guida Nato si era avuto già dopo il 1989: “Penso in particolare ai conflitti nell’ex Jugoslavia che hanno coinvolto anche l’Italia”[4].

Cosicché, le guerre degli uomini sono una realtà persistente e pervasiva, fondate su sistemi di alleanze e di dipendenze, che affliggono decine di Paesi in tutto il mondo. Anche dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, si è avuta una proliferazione di conflitti interstatali che, pur non essendo formalmente guerre tra nazioni, sono “internazionalizzati” dalla partecipazione di potenze esterne, attori non statali e da interessi economici globali. Questa “cronicizzazione” della violenza è alimentata da una combinazione di fattori che rendono la guerra una realtà quasi permanente in molte regioni del mondo.

Possiamo perciò arrivare a parlare di una “guerra infinita”, di una guerra “modulare” e modulata, di una guerra che si esplicita e si impone, però, con schemi e intensità diversi tra loro.

Tale lunga premessa mi serve per introdurre alcune considerazioni sul saggio, estremamente interessante e composito, di S-Connessioni precarie Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente, uscito da poco per DeriveApprodi editore. In esso si sostiene che si può esplicitamente parlare del nostro essere alla presenza di una Terza guerra mondiale,

“perché partiamo dalla considerazione che, come le due precedenti essa non consiste solamente e nemmeno prioritariamente in uno scontro tra Stati, nella loro ricerca di egemonia su scala globale. Nelle guerre definite mondiali la posta in gioco non è stata solo la lotta tra gli Stati per il predominio, ma in maniera altrettanto, se non più, rilevante il modo di esercitare il comando sul lavoro vivo. Le guerre sono diventate mondiali quando esso è diventato globalmente un fattore allo stesso tempo costitutivo e antagonistico per la società capitalistica. Le guerre mondiali non sono guerre tra Stati alla ricerca di una protezione più o meno imperiali, ma sono guerre che investono e ridefiniscono la società capitalista su scala globale”[5].

Si deve chiarire subito, letta questa affermazione, che la guerra contemporanea non è un fenomeno globalmente omogeneo, ma si manifesta, invece, con modalità, intensità e violenze profondamente diverse a seconda dei luoghi e degli attori coinvolti. I conflitti in Ucraina e Palestina, pur essendo tra i più visibili, rappresentano solo due specifici modelli di guerra contemporanea, già differenti tra loro, che coesistono con dinamiche molto diverse presenti in altre parti del mondo. Ma mentre il conflitto in Ucraina e a Gaza attira un’attenzione internazionale significativa, le dinamiche di guerra in luoghi come il Sudan, il Myanmar o il Messico si svolgono con meno clamore benché le conseguenze siano altrettanto, se non più, devastanti per le popolazioni civili. Ci verrebbe da dire, insomma, che la violenza globale della guerra è un fenomeno multiforme e localizzato. E che la definizione di Terza guerra mondiale, per quanto se ne voglia fare “un uso politico”[6], appare piuttosto azzardata poiché non esiste un unico conflitto combattuto su tutti i continenti e perfino i maggiori scontri (Ucraina, Medio Oriente) rimangono conflitti locali, per quanto interconnessi. Dunque, non siamo in presenza di una Terza guerra mondiale se lo intendiamo nel senso tradizionale di uno scontro militare tra due fronti ben definiti.

Per tale ragione, semmai, sembrerebbe più appropriato utilizzare la definizione coniata da Papa Francesco che ha parlato di “terza guerra mondiale combattuta a pezzi” per descrivere lo scenario internazionale contemporaneo, che vede spesso il coinvolgimento, anche indiretto o tramite proxy war (guerre per procura), delle maggiori potenze, mantenendo così una dimensione di tensione globale e di una costante mobilitazione industriale bellica.

La precisazione non vuole essere importuna o pignola ma mi sembra che porre, come fanno gli autori e le autrici, “il problema della fine [della Terza guerra mondiale] senza pretendere di descrivere tutto ciò che sta accadendo”[7] possa risultare poco realistico, così come, specularmente, può sembrarlo l’affermazione che “la fine della guerra esige la produzione di uno spazio per il lavoro vivo che attraversa i fronti e i confini e dunque un salto organizzativo che faccia i conti con il transnazionale”[8].

Il contesto contemporaneo, che possiamo definire una sorta di “economia di guerra”, registra la diffusione e lo sviluppo di un modello di accumulazione e valorizzazione capitalistica che muove dalla sussunzione della riproduzione sociale e dalla mercificazione del vivente a fini di accumulazione per tradursi sempre più direttamente in produzione di morte e distruzione dell’ambiente e delle condizioni di vita.

Risaputamente, la contraddizione tra gli interessi del capitale e quelli della forza-lavoro è la contraddizione principale del sistema capitalistico e se più profondamente scavassimo fino all’origine della pulsione di morte connessa alla guerra troveremmo l’eterno impianto degli assetti patriarcali che verranno ereditati dal capitale: i sentimenti negativi, l’odio non domato nell’uomo delle origini trovano “libertà di espressione” cosicché uccidere il nemico sia facile: “La storia è dunque una lunga serie di ammazzamenti sui quali cade un ‘oscuro senso di colpa’ che origina dall’uccisione del Padre primordiale, la faccia violenta e scabrosa dell’Edipo”[9]. S-Connessioni precarie su questo aspetto scrive, infatti:

Il militarismo come ideologia legittima il diritto del più forte non soltanto nel rapporto tra eserciti, ma anche nelle relazioni sociali e nelle istituzioni. Evidentemente, essa non è la causa della crescente e persistente violenza maschile sulle donne, nonostante in guerra lo stupro sia da sempre utilizzato per svilire simbolicamente il nemico e affermare il dominio sul territorio attraverso il dominio sul corpo delle donne. L’ideologia militarista attiva la stessa ‘pedagogia della crudeltà’ (Segato 2023), stabilendo che la violenza è una strategia d’ordine sempre praticabile e perfino necessaria per punire la pretesa di libertà di chi non vuole essere oppressa[10].

Detto ciò, il militarismo rappresenta, appunto, anche la forma assunta dal capitalismo nella crisi globale attuale e i vari focolai di guerra sono visti non come incidenti, ma come la forma violenta con cui il capitale globale cerca di governare e superare le proprie crisi strutturali.

La crisi salariale diffusa, l’aumento delle disuguaglianze e l’erosione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici su scala mondiale, soprattutto nel Sud del mondo, vanno interpretati come l’espressione di una “guerra di classe” unilaterale, in cui il capitale avanza senza sosta per massimizzare i profitti e mantenere la propria egemonia. Ma è davvero possibile parlare di un capitale omogeneo cui si contrappone un lavoro vivo altrettanto omogeneo in grado di originare una lotta di classe transnazionale? Come si può declinare questa astrazione (pure affascinante) in pratiche veramente capaci di tenere in considerazione da un lato le diverse forme di rappresentazione del lavoro vivo oggi, sempre più eterogenee e diversificate, dall’altro l’attuale fase di ridefinizione intracapitalista degli assetti capitalistici e geoeconomici? Mi domando, insomma, in che senso sia possibile parlare di processi di accumulazione e del lavoro vivo come di un unicum senza precisarne le articolazioni. Esse, credo, vanno considerate come conseguenza del processo di cambiamento in atto verso una realtà multipolare, ancora in divenire ma ineluttabile, che non può essere ristretta e sminuita a visione “regionalistica” degli assetti del mondo contemporaneo[11].

Evidentemente, vorrei qui aggiungere, il processo di globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia hanno portato a una poderosa concentrazione della proprietà e del controllo in capo a pochi attori che operano a livello transnazionale (per utilizzare ancora il termine che attraversa il saggio) ma che pure accumulano ricchezze separatamente, solo in alcune aree “protette” del Nord del globo. Questo acuisce il conflitto, perché la logica del capitale finanziario e della rendita domina sempre più le attività economiche, a scapito della remunerazione del lavoro, di area in area, di nazione in nazione, di colore della pelle in colore della pelle, a seconda del genere, a seconda dell’età anagrafica. La divisione del lavoro di smithiana memoria non ha smesso di esistere, si è trasformata e ingloba anche una divisione cognitiva e biopolitica del lavoro che non possono essere ignorate.

La divisione del lavoro si estende a come le diverse capacità vitali e aspetti dell’esistenza (il benessere, la cura di sé, la salute psicologica, la formazione continua) vengono mobilitate, segmentate e valorizzate. Inoltre, il potere regola la ripartizione del lavoro basandosi su parametri biologici, demografici o sociali (età, genere, salute, etnia, come notavo sopra). La capacità di produrre valore e di essere “inclusi” nel circuito produttivo diventa questione dirimente che separa la vita produttiva e sana da quella considerata “improduttiva” o “a rischio”. I profughi, i migranti che sono risultato della guerra, non si ritrovano più solamente limitati nell’attraversamento dei confini e destinati a diventare il bersaglio di uno “sciovinismo del welfare” che esclude precisamente alcuni[12]. L’esperimento di Gaza ci sta mostrando qualcosa di estremamente più terribile e più agghiacciante.

L’attuale incremento vertiginoso della spesa militare negli Usa, in Europa, in Cina va visto non come una risposta a reali minacce geopolitiche, ma come un elemento propulsivo dell’economia capitalistica di quei contesti e non di altri, con differenziazioni che si riverberano sul piano della crisi del lavoro vivo e degli effetti della stagnazione economica proprio mentre si generano profitti enormi per l’industria degli armamenti.

La guerra, insomma, anche quella combattuta “a pezzi”, funge da meccanismo per ristrutturare le catene del valore e le gerarchie di potere, forzando le singole nazioni a riallinearsi e a ridefinire ciascuna i propri mercati. Stiamo vedendo come la guerra in Palestina e in Medioriente sia perno di processi di neocolonialismo, con nette divergenze tra centri di potere che ne beneficiano, anche dislocati diversamente dal passato (per esempio l’Egitto o il Qatar).

In sintesi, pur tra alcune contraddizioni che ho cercato di illuminare ai fini di continuare un confronto sul tema della guerra con l’area di S-Connessioni precarie che è stato estremamente utile, per me, per noi, in questi anni di guerra, l’espressione “Terza guerra mondiale” può essere utilizzata metaforicamente per descrivere lo scontro di sistema a livello globale, un conflitto che si manifesta con violenza economica e sociale in tutto il mondo, ma tra differenze estremamente marcate, “come occasione di irreggimentare il suo comando sul lavoro vivo e di impedire che la guerra possa saldarsi alle lotte per il salario e per il reddito, la libertà sessuale e quella di movimento”[13].

Le mie perplessità su talune definizioni e termini vogliono rappresentare, dunque, il possibile prosieguo di un dibattito. Di conseguenza, colgo l’aspetto simbolico rilevante rappresentato dall’appello politico a organizzare, collettivamente, scioperi globali e a praticare un rifiuto transnazionale della guerra: “Nessuno è ora fuori dalla guerra e sarebbe illusorio voler tornare a una situazione in cui, in quanto europei, siamo in pace fintantoché la guerra si fa da un’altra parte del mondo”[14].

Non trovano pace i nuovi dannati della terra, nonostante le nuove false promesse “degli stregoni e dei feticci”[15]. Resta forte l’anelito, la spinta ideale, ma restano anche straordinari problemi che per essere risolti vanno bene discussi e chiariti. Bisogna prestare attenzione ai meccanismi, non sconfortarci di fronte alle incomprensioni e proseguire. Chi più delle donne può capire e osare? L’energia liberatrice nasce sempre all’interno dello stesso sistema totalitario che pretende di annullarla. Lo sappiamo da millenni.

NOTE
[1] Virginia Woolf, Le tre ghinee, La Feltrinelli, Milano 1992 p. 25
[2] Ivi, p. 29-30
[3] Alba de Céspedes, Dalla parte di lei, Mondadori, Milano 2021 pp. 527 e 530
[4] Maria Luisa Boccia, Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista, Manifestolibri, Roma 2023, p. 7
[5] Sconnessioni precarie, Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente, DeriveApprodi, Bologna 2025, p. 12
[6] Ivi, p.12
[7] Ivi, p. 14
[8] Ivi, p. 22
[9] Cristiana Cimino, Tra la vita e la morte. La psicoanalisi scomoda, Manifestolibri, Roma 2020, p. 18
[10] Sconnessioni precarie, Nella Terza guerra mondiale, cit., p. 48
[11] Ivi, p. 31
[12] Ivi, p. 59
[13] Ivi, p. 49
[14] Ivi, p. 103
[15] Jean-Paul Sartre, prefazione a Franz Fanon, I nuovi dannati della terra, Einaudi, Torino 2007, p. LXVI
S-Connessioni precarie, Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per il presente, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp.116, euro 15,00

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