Alla Brooklyn Academy of Music qualche sera fa è andato in scena il Mahabharata di Peter Brook; la pellicola è stata restaurata in 8K nel 2024 sotto la supervisione del figlio. Incapsulata dentro il mastodontico poema “vive” la Baghavad Gita, un libro che in tanti hanno amato, Gandhi incluso. Si racconta ne portasse sempre con sé una copia tascabile, e a me solo a sentirne il nome fa sobbalzare il cuore. Dunque, benché fossi da pochi giorni arrivata a Brooklyn, ero pronta a fare carte false pur di entrare in sala.
E così è stato: siamo riusciti ad acquistare due degli ultimi biglietti disponibili e puntualissimi alle 19.10 varcavamo la porta del teatro. Si tratta di un edificio storico, a occhio e croce appartenente alla belle époque; il suo recupero architettonico non ha voluto cancellare i segni del tempo, ma esaltarne l’usura e l’effetto è di grande fascino. Sui muri, a tratti scrostati tanto da mostrare il mattone nudo, appaiono affreschi scoloriti e decorazioni tipiche del periodo; la grande sala è stata sventrata delle strutture lignee per far posto a tre comode e modernissime gallerie una sopra l’altra. Il teatro era gremito di gente, non una poltrona era rimasta vuota.
L’evento è stato aperto da un signore di mezza età, la cui voce tremava; era Simon, il figlio del regista, che agitato nella sua timidezza e commozione non ha detto molto né del film né del padre, ma al termine del suo breve intervento ha ricordato che quello che stavamo per vedere racconta la “Grande Storia dell’Umanità” (è il titolo dell’opera), da non intendere in termini cronologici, ma piuttosto del perché le cose avvengano in un certo modo e ciclicamente. Avremmo potuto vedere nella pellicola la nostra natura profonda, che gratta gratta è la stessa da cinquemila anni.
Ripassiamo insieme rapidamente l’epopea. Per una serie di circostanze inconsuete e magiche due gruppi di giovani cugini vengono allevati nella medesima casa. Sembra che fin da piccoli le due fazioni non possano fare a meno di azzuffarsi, ma se da bambini la lotta era un gioco, da adulti diventa la guerra. Lo scontro è per il possesso del regno, che è poi l’intera Terra. I buoni e i cattivi, il bene e il male, non sono però divisi equamente a metà e alcune figure (come il precettore Bhishma) scivolano di qua e di là. I cinque fratelli Pandava, dopo un lungo esilio nel deserto, devono riconquistare il loro posto di sovrani, usurpato con l’inganno dal malvagio cugino, il principe dei Kauravas. La battaglia dura diciotto giorni, al termine dei quali la devastazione del campo, il kurukshetra, è tale da ricordare oggi un’apocalisse atomica. Come era stato annunciato, hanno vinto i Pandava, i buoni, coloro che erano sulla carta sfavoriti.
Come è stato possibile? E perché si sapeva in anticipo? Perché Arjuna, uno dei cinque Pandava, aveva scelto come amico e consigliere il divino Krishna, lasciando a Duryodhana l’intero esercito con tutte le sue armi. Così si erano presentati in campo le fazioni: cinque fratelli contro migliaia di soldati armati fino ai denti. Ed è proprio in questo punto della narrazione, in uno spazio-tempo sospeso, che si inserisce la Baghavad Gita, riportando il dialogo avvenuto tra l’allievo, Arjuna, e il dio. Un incontro struggente ed eterno che proietta il lettore nelle profondità della coscienza e dell’azione morale; l’unica scelta destinata a non perire, l’unica che sempre ci assicura la vittoria.
Al termine Vyasa, il narratore, consegna il libro della Grande Storia Dell’Umanità, il Mahabharata, a un ragazzino, un nostro progenitore, e la sala esplode in un applauso.
Sono tornata a casa estatica e la notte non ho dormito; erano troppi i pensieri che mi disturbavano. La nostra Storia intrisa di avidità, di potere, di egoismo, tanti nonsense che accecano e che non sembrano mai passare di moda, ma che s’intrecciano fatalmente con l’immortale desiderio di purezza, di qualcosa di meglio per tutti, qualcosa che sia bello e da condividere con l’altro. Alcuni lo chiamano “amore universale”, altri “ragione”; quello che comunque e sempre unisce le genti, le fa ritrovare in sé stesse, che fa riconoscere la legge del Dharma che ci sovrasta e che non può mai perire. E in quel turbinio mi sono chiesta: ma oggi, chi sono quelli armati? Quali quelli che appaiono forti? E chi sono quelli che stanno ascoltando la coscienza che parla e che non hanno armi?
Di rientro da un incontro per la campagna elettorale di Zohran Mamdani tenutosi nel mio quartiere, Bed-Stuy, mi è tornata in mente la pellicola della “Grande Storia dell’Umanità”. Una storia antica che instancabilmente ci racconta di una verità che ci sta proprio sotto agli occhi, ma che noi vediamo al contrario: Il mondo non sarà mai di chi lo vuole possedere con la forza, perché può appartenere solo a chi lo vive nella coscienza. Un sospiro mi sale leggero in gola, mentre mi chiedo se Zohran e i tanti giovani che lo sostengono possano essere l’Arjuna dei nostri tempi.










