Riceviamo e pubblichiamo dalla giornalista e scrittrice Giancarla Codrignani

Dal 7 ottobre sono, uno dopo l’altro, precipitati tutti i principi e tutte le norme della Carta delle Nazioni Unite, del diritto internazionale, dei diritti umani, del diritto penale internazionale, perfino del diritto di guerra per l’afflizione deliberata di sofferenze disumane e le uccisioni mirate anche sui bambini, lo sterminio per fame alla popolazione civile. Responsabile il governo israeliano. Vittima il popolo palestinese.

Causa un attentato di straordinaria crudeltà e violenza, perpetrato dal gruppo nazionalista Hamas. Il presidente Netanyahu per ritorsione persegue la distruzione di Gaza, l’esproprio della Cisgiordania da parte dei coloni, la deportazione del popolo palestinese per costruire il Grande Israele del sovranismo biblico.
La strategia di Netanyahu, presidente di un paese ritenuto democratico, reso disturbato da periodiche, costanti violenze causate dal terrorismo proprio e altrui, fin dalla prima strage di Deir Yassin, piccolo villaggio di 400 abitanti nel 1948.

Oggi tutti i paesi del mondo sono sconvolti, fino all’inedita richiesta da parte di molti governi del riconoscimento dello Stato palestinese, misura tardiva, quando mancano forse definitivamente i mezzi effettivi per applicarla.
Inascoltati gli appelli per la tregua umanitaria e la disperata denuncia di genocidio del popolo palestinese di David Grossman.

Non so voi, ma la mia coscienza non è tranquilla: il dolore è arrivato al silenzio e anche gli israeliani poco nazionalisti sembrano conniventi. Si esautora un parlamentare ebreo del partito arabo e si cerca di espellerlo dalla Knesset: difficile reagire. Israele non è più uno Stato di diritto.

(…) Nel 1980 una riforma costituzionale votata dalla Knesset, la città dove dovevano convivere ebrei, musulmani e cristiani, divenne la capitale unita e indivisa di Israele. Era la pianificazione dello Stato di Israele.

L’Onu aveva articolato anche uno Stato della Palestina, con confini che stabilissero la statualità della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme Est.(…)

Impossibile continuare a negare la responsabilità per il mancato compimento della promessa originaria dei “due popoli, due Stati”, rimasta per quasi otto decenni l’unica soluzione nonviolenta per un conflitto che, oltre all’esigenza specifica di giustizia, metteva periodicamente in crisi gli equilibri mediorientali.

E che – a parte i tentativi di Carter e di Clinton – nessun Paese o coalizione di Paesi, nessun’organizzazione internazionale, nonostante le reiterate risoluzioni delle Nazioni Unite a condanna delle aggressioni e le stragi compiute dai governi israeliani, ha mai avuto il coraggio di assumersi formalmente la responsabilità.

L’importanza per gli Usa della lobby ebraica è stata enfatizzata strumentalmente, se è vero che da anni esiste una lobby araba di non minore rilievo elettorale.

La religione dei valori universali dell’ebraismo si è ridotta – nel mondo laico preoccupato del ritorno dell’antisemitismo – a retorica ipocrita, anche se tutti li confermano fondamento della vita civile e della libertà religiosa. Intanto gli anni sono passati insieme con le stragi di Hebron, Sabra e Chatila, Tell al-Za’tar.

La causa palestinese venne imponendosi da parte dell’indignazione dei popoli del mondo che, generazione dopo generazione, attivarono manifestazioni, proteste, boicottaggi dei pompelmi di Jaffa in nome di diritti umani che Israele violava e i governi deploravano.
Ma l’indignazione dei popoli non basta se i cittadini – che hanno idee chiare sui diritti umani – hanno governi passivi o internazionalmente bloccati dalla rigidezza delle relazioni congelate dai formalismi.

Oggi continuano gli appelli governativi e le proteste popolari, ma è solo grande, muta desolazione: a Gaza muore non è solo un territorio e un numero assurdo e spaventoso di vittime – settantamila – ma il riconoscimento di un Stato palestinese, per la prima volta richiesto da alcuni governi europei, mentre l’UE non è lo Stato Unito pensato a Ventotene e non può agire a nome di tutti i ventisette. Gli stessi arabi, fin dal primo giorno dichiaratisi fratelli degli altri arabi che possedevano la Palestina per esserci nati e vissuti, si limitano oggi ai percorsi diplomatici per trattare la tregua.

(…) Anch’io ho a lungo partecipato a questo, diciamo così, integralismo dei principi, nelle manifestazioni che chiedevano che il mondo funzionasse – perché glielo chiedevamo noi – come i principi comandavano. Non mi è durato a lungo, per delusione di ripetere troppe volte gli stessi cortei e firmare gli stessi appelli.

I popoli, anche dei Paesi democratici, possono gridare, perfino in accordo con i loro governi, senza produrre neppure un’eco che risuoni “in alto”. Dopo il massacro di Sabra e Chatila ero così sconvolta che a una riunione internazionale dell’Associazione della Chiesa cattolica Pax Christi, proposi la chiusura dell’istituzione che, con quel nome, denunciava il fallimento reale di sé e del mondo.

Da allora, emotivamente mantenendo la condivisione reale con il movimento pacifista, non appartenevo più politicamente ad una parte sola: non ci sarebbe stata cessazione delle violenze se non avessi tenuto conto dell’altra parte.

Tuttavia la nonviolenza concreta non riesce a diventare popolare: non si tratta di abbandonare “la causa”, si tratta di rendere attiva l’indignazione: scendere in piazza per condannare non attenua il danno. Se siamo buoni cittadini dobbiamo prima considerare la politica del governo a cui diamo il voto e portare le questioni in Parlamento.

Papa Francesco metteva in guardia dall’antisemitismo, ma non nascondeva i diritti delle vittime; oggi papa Leone XIV, il papa americano – colpito direttamente dal bombardamento della chiesa di Gaza – ha nominato i problemi della guerra che Israele conduce con violenza inaccettabile senza veli diplomatici e ha inviato il cardinale Pizzaballa a visitare Gaza e denunciare la responsabilità di Israele e l’impossibilità di ritenere “errore” le bombe che hanno distrutto e ucciso.

Ma occorre coraggio, perché a questo punto Netanyahu ci ha portato oltre la guerra e ha reso l’arma della fame non diversa dall’uso del nucleare: l’umanità ne è offesa e qualche soluzione dovrà sortirne. Solo che, dopo tanti anni di ipocrisia e ignavia, anche i potenti sono incapaci proprio di coraggio. Complici.