Sabato 30 agosto avrei potuto trascorrerlo al mare, tra una nuotata e un po’ di sole. Invece ho aperto il casolare Impastato, come da calendario concordato tra le Associazioni che lo gestiscono e la Sovrintendenza ai Beni Culturali. Sembrava una mattina come tante, ma si è trasformata in un’occasione di riflessione.
Prima ho incontrato Cinzia, una giovane dottoranda di Firenze che studia il rapporto tra donne e mare. Da lì la conversazione è scivolata sulla storia di Peppino: il circolo Musica e Cultura, l’esperienza di Radio Aut, la sua voce scomoda e coraggiosa, il contesto di questa storia collettiva. La memoria funziona così: ti porta sempre altrove, ti costringe a fare connessioni inattese.
Poi è arrivata Emanuela, una ragazza dell’Umbria che anni fa aveva fatto servizio civile a Casa Memoria Impastato. Questa volta era accompagnata da due bimbi, sei e quattro anni, curiosi e pieni di domande. Ammetto che mi sono sentito spiazzato: come si racconta a due bambini la storia di un uomo fatto saltare in aria dalla mafia?
Eppure lei ci è riuscita. Con semplicità, ha mostrato loro la panca – oggi rifatta in plexiglass, una brutta copia che oserei dire offensiva della Memoria e che non restituisce la forza dell’originale – dove hanno rappresentato le tracce di quel giorno. Li ha preparati con un linguaggio a misura di infante: avevano già letto il fumetto Peppino con il naso all’insù, e questo li aveva resi pronti a capire. Hanno ascoltato senza paura, con quella naturale serietà che l’infanzia sa riservare alle cose importanti.
Li ha poi fatti fermare davanti ad una sola foto tra quelle immagini dell’orrore appena compiuto, l’ha fatta guardare bene per ricordarla: il muretto della ferrovia, le agavi, i binari, la cava nella montagna, il cartello sulla ferrovia che dice Peppino assassinato qui. Infine li ha portati davanti a quel luogo reale, facendo sovrapporre loro il ricordo dell’immagine e la realtà. Uno sguardo che colmava la distanza tra il passato e l’adesso.
In quel momento ho capito qualcosa di essenziale: la memoria non è un museo, non è una cerimonia, non è una data sul calendario. È un gesto che passa di mano in mano, di voce in voce, persino agli occhi di due bambini. Non è mai troppo presto per imparare che la giustizia e il coraggio hanno un prezzo, ma che vale la pena ricordarli.
Forse il compito di chi custodisce la memoria è proprio questo: non tenerla ferma, ma consegnarla. Farla germogliare. Perché la storia di Peppino non appartiene solo a chi l’ha vissuta: appartiene a chi verrà dopo.
Il casolare Impastato, allora, non è solo un luogo della morte, ma un laboratorio di trasmissione. Non un mausoleo, ma uno spazio in cui la storia si consegna “di mano in mano”, fino ad arrivare persino alle mani piccole e agli occhi curiosi di due bambini che, un giorno, potranno raccontarla a loro volta.
Forse questo è il senso più profondo del custodire la memoria: non fissarla in un eterno presente, ma darle movimento, farla passare di generazione in generazione. Così che non diventi solo storia passata, ma coscienza viva, responsabilità attuale.










