In Italia, per un genitore extracomunitario riuscire a vivere con il proprio figlio può diventare un’impresa impossibile. Una vera e propria corsa a ostacoli fatta di documenti, requisiti economici, autorizzazioni e lungaggini burocratiche che spesso finiscono per negare quello che dovrebbe essere un diritto umano fondamentale: la possibilità di crescere accanto ai propri figli.
Eppure, il diritto al ricongiungimento familiare non è un lusso né una concessione. È un diritto riconosciuto da numerose convenzioni internazionali, dalla Costituzione italiana e dalle leggi europee. Quando viene ostacolato senza un motivo serio e proporzionato, si parla di una doppia violazione del diritto internazionale: da una parte si colpisce il minore, privandolo della figura del genitore, e dall’altra si calpesta il diritto di quel genitore a costruire una vita familiare con il proprio figlio.
Il caso di D. e H.: cinque anni senza papà
D. e H. sono una coppia giovane. Vivono in Italia, dove H. è arrivata da tempo. Quando scopre di essere incinta, la gioia è grande ma dura poco. Pochi mesi dopo, il compagno viene espulso dal territorio italiano per mancanza del permesso di soggiorno. Nessuna valutazione sul fatto che stesse per diventare padre, nessuna considerazione per il legame affettivo, nessuna alternativa: deve andarsene.
Da quel momento in poi, D. non potrà più vedere H., non potrà assisterla durante la gravidanza, non sarà presente alla nascita del figlio. Il bambino nasce, cresce, inizia a parlare, va all’asilo — e non ha mai potuto conoscere il padre, se non attraverso schermi e racconti. Un’assenza forzata, che nessuna norma giuridica potrebbe giustificare davvero, se solo si guardasse la vicenda con gli occhi del bambino.
Oggi quel bambino ha appena compiuto cinque anni. E solo adesso, forse, si intravede una possibilità concreta di ricongiungimento. Una speranza, non una certezza. Dopo cinque anni di distacco ingiustificato, vissuti nell’ombra di un sistema che ha trattato il diritto alla famiglia come una complicazione da evitare, anziché come un valore da difendere.
Diritti riconosciuti, ma solo sulla carta
La Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia, ratificata dall’Italia nel 1991, stabilisce che l’interesse superiore del minore deve essere una “considerazione preminente” in tutte le decisioni che lo riguardano. Ma quando un genitore viene espulso senza neanche valutare l’impatto su un bambino non ancora nato, quel principio è svuotato di senso.
Anche il diritto europeo è chiaro: la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea tutelano la vita familiare e il diritto dei minori a mantenere rapporti regolari con entrambi i genitori. Ma per tante famiglie come quella di D. e H., queste tutele restano lettera morta, ignorate nei fatti da prassi amministrative troppo rigide e disumanizzanti.
Giustizia troppo lenta, sofferenza immediata
In alcuni casi, i tribunali italiani intervengono a rimediare, ma anche quando la giustizia dà ragione, il tempo perso non si recupera. E in una relazione genitore-figlio, soprattutto nei primi anni di vita, il tempo è tutto.
Il ricongiungimento familiare non dovrebbe essere un privilegio riservato a chi ha una casa più grande o un contratto a tempo indeterminato. Dovrebbe essere la regola, non l’eccezione, almeno quando in gioco c’è la crescita affettiva ed emotiva di un bambino.
Un Paese che protegge le famiglie, tutte le famiglie
L’Italia deve decidere cosa vuole essere: un Paese che difende i propri valori – come la centralità della famiglia e la tutela dell’infanzia – oppure uno che li proclama solo a parole, salvo poi disattenderli nella pratica. Non è una questione ideologica, ma di civiltà.
Un Paese che rende difficile a un padre vedere il proprio figlio non è più sicuro, è solo più ingiusto. E un bambino che cresce senza un genitore per colpa della burocrazia è il simbolo più chiaro di una legge che ha smesso di essere umana.










