A proposito dell’unità della sinistra antagonista, anche riguardo al 21 giugno e alla due piazze previste in contemporanea        

È ormai un dato di fatto assodato che alla sinistra della sinistra istituzionale (a sinistra del Partito democratico) si muovano un numero enorme di sigle, partiti e partitini, associazioni territoriali e di scopo, che spesso litigano ferocemente tra loro, dividendosi anche sulle “virgole”.

Naturalmente gli appelli all’unità sono continui, ma quasi sempre poco fruttuosi. Vi è innanzitutto una differenza di partenza: una parte fa appello all’unità dei “progressisti”, ipotizzando una alleanza con la sinistra istituzionale (Partito Democratico, 5stelle, ecc.), un’altra parte invece auspica la costruzione di un “campo antagonista” unito su posizioni radicali ed antisistema.

Per essere più chiari: vi è una sinistra di movimento che ipotizza una profonda trasformazione delle istituzioni, fondandosi su valori di radicale uguaglianza e libertà nelle relazioni sociali, e sulla convivenza disarmata tra i popoli. E vi è poi una sinistra, che considerando utopistiche le ipotesi più radicali, guarda alla possibilità concreta di un ipotetico riformismo moderato. Schematizzando ancora: vi è da una parte l’assunzione privilegiata di un “radicalismo etico” centrato innanzitutto sui valori che caratterizzano un’ipotesi rivoluzionaria fatta propria dal “campo antagonista”, e dall’altra parte vi è “il campo largo” che pone al centro la mediazione politica intesa come l’arte del possibile.

In realtà, in linea di principio questa distinzione non dovrebbe neppure esistere. La fermezza e l’indisponibilità dei valori “rivoluzionari” su cui si basa l’ipotesi futuribile di un mondo nuovo, dovrebbe sempre sposarsi alla flessibilità delle concrete scelte politiche praticabili. “La speranza nell’impossibile” che si coniuga e guida “l’arte del possibile”.

Oggi questo rapporto si è spezzato. Il precario equilibrio tra “utopia” e “realismo” è venuto meno e non è ricostruibile nel breve periodo. La causa di questo divorzio credo che abbia le sue radici nella sconfitta storica che la sinistra ha subito a partire dagli anni Ottanta. Fino ad allora tutto era chiaro (almeno in una prospettiva radicalmente rivoluzionaria): “ Il partito unico della classe avrebbe guidato le masse alla presa del potere (secondo alcuni per via democratica, secondo altri attraverso la lotta armata) per realizzare il socialismo, fondato sulla socializzazione dei mezzi di produzione”.  Il crollo dell’URSS con le sue tante contraddizioni e aporie (secondo alcuni anche i suoi molti crimini) che avevano caratterizzato la sua storia sin dai tempi di Stalin, è il momento emblematico di questo passaggio. 

A questo punto ricostruire un percorso finalizzato al mutamento rivoluzionario non è facile, ma resta necessario visto il volto sempre più cruento che assume il capitalismo dei nostri tempi. La nostra difficoltà si può misurare sul fatto che le forze rivoluzionarie non hanno più un modello sociale  e istituzionale alternativo da proporre e devono dunque affidarsi alla speranza che il cambiamento possa svelarsi nella ricerca del cammino da percorrere.

Proprio in ragione di tutto questo dovrebbe essere chiaro come la nostra unica possibilità di sopravvivenza, e di possibile rinascita, stia tutta nelle pratiche che ho definito di “sinistra antagonista”. Solo riaffermando l’assoluta indisponibilità dei nostri valori primari e distintivi potremo ricercare la giusta via per uscire dalle  presenti difficoltà. Al contrario  la “sinistra progressista” del cosiddetto “campo largo”, date le attuali condizioni globali, in nome del realismo politico non potrà che scendere a patti sempre più compromissori e sempre più avvilenti e lontani dagli ideali di partenza.

Facciamo un esempio di attualità e che riguarda i venti di guerra che percorrono il mondo. La sinistra antagonista, che per sua natura non può che privilegiare “la piazza” come luogo della sua autodefinizione e autoaffermazione, potrà porre in modo radicale una ipotesi di “pace disarmata universale” (ma anche unilaterale), come valore “sacro” (nel senso di inviolabile) cui fare riferimento, e che comprende anche la fine di tutte le alleanze militari (compresa la NATO) e l’esaltazione del  valore della diserzione. Questa ipotesi, molto probabilmente, non ha alcuna possibilità di successo, almeno nell’immediato, ma la grandiosità etica del messaggio che contiene può avere due fondamentali effetti positivi: per un verso ci identifica e ci qualifica in modo inequivocabile, per altro verso può avere un valore educativo di massa i cui effetti si vedranno col tempo.

Al contrario la sinistra progressista del campo largo, che per ovvie ragioni non può che muoversi nell’ottica della centralità del “palazzo”, inteso metaforicamente come luogo del potere, in nome del realismo politico non potrà che restare imbrigliata in ipotesi che possono anche invocare (a parole) l’esigenza della pace, ma che infine devono prendere atto, con tutte le conseguenze del caso, dei venti di guerra come caratteri che dominano il presente della geopolitica. 

Questo mio elogio di quanto ho definito “sinistra antagonista” o “campo antagonista”, mi porta a dover mettere l’esigenza della unità di tutte le forze che lo compongono, come obiettivo centrale, oserei definirlo anzi come il più importante degli obiettivi, per la nostra sopravvivenza innanzitutto, e poi per l’auspicabile crescita futura delle prospettive di lotta.

A questo proposito però è necessario concludere con due opportune note critiche. La prima, cui ho già accennato, riguarda il fatto che tutti dovremmo essere consapevoli che si tratta di ricostruire un percorso che si è interrotto a causa di una sconfitta storica, che ci impone un impegno che è di militanza attiva, ma anche di disponibilità allo studio e alla ricerca, nella consapevolezza che molte cose sul piano della teoria e dell’agire politico sono tutt’altro che chiare o non ancora definite con certezza, con tutte le difficoltà che una tale situazione comporta.

La seconda questione, strettamente legata alla prima, è che dovremmo fare tutti noi militanti della sinistra antagonista, un bagno di umiltà e di modestia, smettendo di avere quel tipico atteggiamento, che spesso caratterizza ciascuno di noi come fosse il solo erede del verbo marxista e della infallibilità del “partito unico”. Dovremmo infine essere consapevoli che abbiamo ancora tanto da capire, e che a volte un dubbio può essere più produttivo di mille certezze, a patto che si abbia realmente voglia di confrontarsi.