Sono e sono stati tupamaros e sono soprattutto uomini: Maurizio Rosencof e E. Fernàndez Huidobro, detto “Ñato”, dialogano e raccontano la loro esperienza come prigionieri in quanto dirigenti del Movimento di Liberazione nazionale in Uruguay.

Rosencof viene arrestato nel 1972 e l’anno successivo viene tenuto come ostaggio del regime in totale isolamento, per 11 anni, 6 mesi e qualche giorno; Huidobro viene preso sempre nel ’73 e sottoposto, insieme a Pepe Mujica (futuro presidente del Paese) e ad altri compagni ad una serie di terribili misure di sicurezza. Le storie personali che si intrecciano alla Storia di un Passato recente sono narrate in Memorie dal calabozo, un testo pubblicato da una casa editrice indipendente, la Rayuela Edizioni, e tradotto dal poeta e scrittore Milton Fernàndez.

I “calabozos” sono le celle anguste, piccole, buie, fredde in cui sono stati trattenuti per decenni gli ostaggi del regime militare che negli anni ’70-’80 è al potere in Uruguay; il Paese e il mondo sono distratti – come avviene per i desaparecidos argentini – dal campionato di calcio, indifferenti a ciò che sta accadendo a chi lotta per la democrazia e l’uguaglianza. Sì, i tumaparos sono stati guerriglieri, sì sono comunisti. Il libro (un romanzo, un memoriale) permette al lettore di entrare non solo nelle viscere della terra in cui quegli uomini e quelle donne hanno subìto ogni sorta di violenza fisica e psicologica, ma permette di farci entrare soprattutto nella mente di quelle persone che, una volta tolta loro la dignità di esseri umani, resistono grazie alla potenza dello spirito, dell’immaginazione, dei ricordi di ciò che hanno lasciato fuori e a cui vogliono fare ritorno: famiglia, figli, valori…

La loro esistenza non può essere scollegata dalla loro causa; il loro corpo come terreno di sfida e di prova; la loro psiche come custodia del Bene e del Bello da ripristinare di fronte all’arbitrarietà della politica chiusa in se stessa, della disciplina vuota di umanità, dell’obbedienza priva di autocritica.

Rosencof e F. Huidobro si palleggiano la parola, uno inizia la frase e l’altro la completa perché le memorie si affastellano, ancora oggi a distanza di tempo: paure, dolore, speranza, delusioni… L’essenza dell’Uomo, ridotto a pelle e ossa, si fa resilienza nel pensiero, nella parola detta, sussurrata, cantata, scritta con le unghie e nella poesia. Perché, nonostante l’orrore della violenza, nasce la poesia nei cuori indomiti.

Gli anni di detenzione dei tupamaros sono stati raccontati anche da un film, altrettanto potente quanto il libro, dal titolo che riprende i lunghi giorni della loro prigionia: Una notte di 12 anni, del regista Álvaro Brechner. Se un testo e un’opera cinematografica tornano su questo periodo storico vuol dire che è utile farlo: si parla, infatti, di dittatura militare, di dissidenti puniti, di diritti negati (c’è un capitolo dedicato alla Convenzione di Ginevra), di silenzi ipocriti da parte della comunità internazionale: tutti argomenti, questi, ancora purtroppo di stretta attualità.

Un inno alla libertà, alla lotta e alla parola. Così scrive Eduardo Galeano nella prefazione del libro: “La comunicazione, attraverso l’improvvisato codice morse, è stata la chiave della loro salvezza. Picchiettando con le dita riconquistarono il diritto negato alla loro voce: attraverso il muro si incoraggiarono, si consolarono, discussero, spartirono esperienze e deliri, persone e fantasmi, sogni e ricordi. Quella musica tamburellata, quegli umili ticchettii agirono meglio di una sinfonia di Beethoven; in essa risuonava la meraviglia dell’universo. Vietata la bocca, parlavano le dita. Parlavano il linguaggio vero, quello che nasce dalla necessità di dire”.

Per Simòn, Mariana, Oscar, Ada, Gilberto, Hèctor, Manuel, Roberto, Marìa e tanti altri…

“…La mia cella è il luogo

delle uve bianche.

Le pigio senza fretta

e il vino del sole

distilla, inebriato,

una speranza”.

(di Maurizio Rosencof)