Il 12° “Rapporto sulla povertà sanitaria” elaborato dall’Osservatorio Povertà Sanitaria di Banco Farmaceutico e i risultati dalla “Indagine civica sull’aderenza terapeutica: un piano d’azione comune” di Cittadinanzattiva evidenziano molte problematiche e criticità.
La povertà assoluta in Italia è in costante aumento: dal 6,2% delle famiglie nel 2014 all’8,4% nel 2024. E le famiglie povere spendono per la salute molto meno, in termini assoluti, delle altre famiglie (10,66 € mensili pro capite contro 67,97 €), ma anche in termini relativi: solo il 2,1% della loro spesa totale è destinata alla sanità, contro il 4,4% delle famiglie non povere.
Le regioni in cui per diversi motivi (risorse disponibili, invecchiamento della popolazione, presenza di un grande contesto metropolitano) la spesa sanitaria mensile pro capite è più elevata (Valle d’Aosta, Liguria e Lazio) sono anche quelle in cui il gap di spesa tra poveri e non poveri è più alto (tra i 70 e gli 85 euro). Un gap leggermente più ridotto (60-70 euro) si ritrova in Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Umbria e Sicilia, dove la spesa sanitaria è lievemente più bassa rispetto alle regioni di testa. Esiste dunque una relazione stretta tra le due variabili, che ritroviamo anche nelle altre regioni. Unica eccezione, la Calabria, dove si registra un gap intermedio in presenza di una spesa sanitaria medio-bassa.
È quanto si legge nel 12° Rapporto sulla povertà sanitaria a cura dell’Osservatorio Povertà Sanitaria di Banco Farmaceutico.
Il SSN tutela la salute come diritto fondamentale. Per questo prevede l’esenzione dal ticket per alcune categorie (vedi Tabella 1), cui si aggiungono altre esenzioni per patologia o quelle introdotte da alcune regioni. “Si tratta di esenzioni parziali e, nel complesso – si sottolinea nel Rapporto – il SSN sembra mostrare un profilo regressivo: le famiglie più povere spendono meno sia in termini assoluti sia in proporzione. In particolare, tendono a limitarsi all’acquisto di farmaci, rinunciando ad altre prestazioni sanitarie (visite specialistiche, esami diagnostici ecc.), con potenziali effetti negativi sulla salute a lungo termine e il rischio di aumento della cronicizzazione delle patologie”.
Le famiglie povere spendono, ogni mese, proporzionalmente di più in medicinali (58,6% vs il 39,6% delle famiglie non povere), ma molto meno in servizi dentistici (6,8% vs 22,6%) e in ausili sanitari (protesi, ausili per la mobilità, per la comunicazione ecc). Contrariamente a quanto atteso, la spesa per la prevenzione è leggermente superiore tra le famiglie povere rispetto a quelle non povere (15,6% vs 14,4%). Le famiglie povere limitano il numero di visite e accertamenti medici (24,3%) o si rivolgono a medici e centri diagnostici più economici (7%) in misura superiore rispetto alle famiglie non povere (rispettivamente 3,7% e 10,6%). Tale comportamento, evidentemente, non è ipotizzabile come frutto di libera scelta, ma come una strategia di adattamento a condizioni economiche sfavorevoli che spingono a sacrificare la salute per sostenere altre necessità.
Particolarmente accentuata e drammatica è la distanza di spesa per servizi ambulatoriali dentistici. Chi ha limitato la spesa sanitaria mostra una distribuzione della spesa effettiva molto più concentrata sui medicinali (47,8% rispetto al 39,3% di chi non ha limitato la spesa – grafico 6). Per quanto riguarda le rimanenti spese, solo quelle odontoiatriche risultano lievemente superiori (21,7% vs 21,5%), mentre tutte le altre voci di spesa risultano compresse e, in particolare, i servizi per la prevenzione (11,5% vs 14,8%), dispositivi, ausili e articoli sanitari (10,9% vs 12,3%), riabilitazione (3,4% vs 5,2%) e servizi di long term care (1,7% vs 2,2%).
Intanto, solo la metà dei cittadini, in cura per una o più patologie, segue le terapie in modo costante ed appropriato. L’altra metà si divide fra chi, in maniera preponderante, le salta raramente (35,6%) e chi occasionalmente (11,5%). Un residuo 1,5% non le segue con alcuna costanza.
Il profilo dei pazienti “non aderenti” è rappresentato principalmente da persone fragili e anziane, con basso livello socio-culturale, spesso sole o comunque con scarso supporto familiare.
A pesare sulla non aderenza contribuisce molto anche la comorbidità, ossia la presenza di due o più patologie.
Sono questi alcuni dei risultati che emergono dalla Indagine civica sull’aderenza terapeutica: un piano d’azione comune di Cittadinanzattiva.
La quota più ampia di pazienti intervistati (38%) interpreta l’aderenza come rispetto puntuale delle indicazioni mediche, il 18% come un fattore di consapevolezza e responsabilità personale, mentre il 15% come conseguenza diretta della relazione medico-paziente, basata su dialogo, fiducia, confronto e collaborazione.
Fra le motivazioni che portano a non seguire la terapia prevalgono, a detta dei pazienti, aspetti psicologici e percettivi: il (28,3%) soffre la sensazione di dipendenza dal farmaco, mentre la pigrizia o mancanza di motivazione (20,8%) e la percezione di non essere in pericolo reale (20,2%) contribuiscono a una riduzione dell’aderenza. Interessante il profilo dei pazienti “non aderenti” fornito dai Presidenti delle associazioni: quasi il 73% di questi ultimi afferma che sono maggiormente a rischio le persone fragili e anziane, quelle con basso livello socio-culturale (58,3%), chi vive in condizione di solitudine e di scarso supporto familiare (54,2%), a conferma del ruolo cruciale della rete sociale nel sostenere la gestione quotidiana della terapia. Rilevante anche la quota (45,8%) di chi sostiene che i pazienti con comorbidità siano quelli più a rischio.
Anche i professionisti intervistati confermano in gran parte le caratteristiche del paziente a maggior rischio di non aderenza: con percentuali superiori al 70%, lo individuano nelle persone sole o anziane, poco meno (con percentuali intorno al 65%) in soggetti con basso livello socio-culturale. La presenza di due o più patologie risulta essere un fattore importante ma meno rilevante degli altri rispetto al rischio di non seguire correttamente le terapie: ad indicarla è circa un terzo del campione dei medici di medicina generale e degli infermieri, oltre la metà dei farmacisti ospedalieri e degli specialisti.
Cosa manca per una maggiore aderenza terapeutica?
Fra le priorità indicate dai Presidenti delle Associazioni, emerge sicuramente il rafforzamento della comunicazione medico-paziente (22%), il coinvolgimento strutturato delle Associazioni nei percorsi assistenziali (18%), la necessità di educazione terapeutica e informazione capillare (16%), il bisogno di formazione e supporto ai caregiver e ai volontari (12%), riconosciuti come attori centrali nei percorsi di aderenza. Anche i cittadini, al fine di migliorare l’aderenza terapeutica, chiedono prima di tutto più dialogo con il medico curante (36,1%) e un maggiore supporto pratico, sia digitale sia analogico (35,6%).
Un altro quarto dei rispondenti manifesta il bisogno di confronto con altri pazienti (26,1%) e di un maggiore coinvolgimento di altri professionisti sanitari — infermieri, farmacisti, operatori di prossimità (25,2%), vedere miglioramenti tangibili (24,9%).
Il bisogno di un supporto motivazionale è indicato dal 19,9%. I pazienti chiedono dunque un supporto personalizzato, che combini: una relazione più stretta e continua con il medico; strumenti concreti per la gestione quotidiana; un accompagnamento motivazionale e relazionale non necessariamente clinico.
«L’aderenza terapeutica è un fenomeno complesso e multifattoriale e, in quanto tale, necessita di interventi personalizzati e allo stesso tempo strutturali per garantire l’efficacia delle cure e quindi la qualità di vita dei pazienti. Interventi che consentirebbero di contenere le spese economiche derivanti dalla scarsa aderenza alle terapie, stimate in circa 2 miliardi di euro l’anno per il Servizio Sanitario Nazionale – sottolinea Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva – Quanto e come il cittadino segua con costanza le terapie, siano esse farmacologiche e non, è condizionato da numerosi fattori, di carattere anagrafico, sociale, economico, di stili di vita, e dunque – accanto ad interventi di sistema finalizzati a integrare un modello di rete coordinato, di prossimità, supportato da strumenti digitali e capacità organizzativa – occorre puntare molto sul tempo che i professionisti possono dedicare al paziente e ai suoi caregiver».
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