Nel 2024, in Italia, il salario lordo annuale medio nel settore privato, esclusi il settore agricolo e domestico, si è attestato a 24.486 euro. Osservando il salario medio disaggregato per differenti profili occupazionali si osserva come il lavoratore a tempo indeterminato, full-time e anno intero abbia guadagnato 39,6 mila euro lordi annui, attestandosi ad un livello marcatamente superiore rispetto alla media generale. Al contrario, il lavoratore a termine e part-time hanno guadagnato in media, rispettivamente, 10,5 mila è 12,2 mila lordi annui, attestandosi entrambi nettamente al di sotto della media generale. Nello stesso anno, nel Mezzogiorno il salario lordo annuale medio è però pari a 18.148 euro, con un differenziale salariale che lo penalizza complessivamente nella misura del -25,9% rispetto all’Italia.

Inoltre, nel Meridione si registra una significativa differenza anche nei vari profili occupazionali, in particolare nel caso del lavoratore standard. È quanto si legge in uno studio dell’Ufficio Economia della Cgil Nazionale, a cura di Nicolò Giangrande, che analizza i dati INPS del settore privato (esclusi agricoli e domestici). “Questo profondo divario salariale tra il Mezzogiorno e l’Italia, si legge nello Studio della CGIL, è determinato da un minor numero di giornate medie retribuite nell’anno (228 contro 247), da un maggior peso delle attività economiche a retribuzione più bassa e da un’incidenza più alta del lavoro non-standard (a termine, part-time, discontinuo)”.

Tenendo conto che il salario annuale di un dipendente è il risultato della combinazione di almeno tre componenti (la retribuzione oraria, l’intensità occupazionale mensile e la durata contrattuale nell’arco dell’anno), sono proprio gli elementi più penalizzanti evidenziati precedentemente che, combinati tra loro, concorrono a determinare nel Mezzogiorno salari lordi annui nettamente più bassi rispetto al resto del Paese. “Lo si può osservare nitidamente, annota Giangrande, attraverso la distribuzione per classi di importo della retribuzione annuale: nel 2024, nelle classi inferiori a 25 mila euro lordi annuali ricade il 60,1% dei lavoratori dipendenti del settore privato in Italia (10,7 milioni) contro il 74,5% nel Mezzogiorno (3,2 milioni). Tra questi, si segnala che sotto i 15 mila euro lordi annuali c’è il 34,5% dei lavoratori a livello nazionale (6,1 milioni) contro il 47,3% a livello meridionale (2,1 milioni)”.

Salari che negli ultimi anni al Sud sono poi addirittura “crollati”. Come sottolineava la SVIMEZ nel suo ultimo Rapporto, tra il quarto trimestre 2019 e la prima metà del 2024, i salari reali si sono ridotti del -5,7% al Sud e del -4,5% nel Centro-Nord (-1,4% nell’eurozona). Un vero e proprio crollo al Sud causato da una più sostenuta dinamica dei prezzi e dai ritardi nei rinnovi contrattuali, in un mercato del lavoro che ha raggiunto livelli patologici di flessibilità.

Nel Mezzogiorno la precarietà è diventata un fenomeno tutt’altro che marginale in comparazione ad altre economie europee. Nelle regioni meridionali più di un lavoratore su cinque è assunto con contratti a termine: 21,5%, contro una media europea del 13,5%. La minore diffusione di posizioni permanenti è spiegata soprattutto dalla presenza di una struttura produttiva che più si presta a ricorrere al lavoro flessibile, per la più marcata specializzazione nel terziario tradizionale e la più contenuta dimensione media delle imprese.

Quasi i tre quarti degli occupati meridionali a tempo parziale sono in part-time involontario (72,9%), a fronte del 46,2% nel Centro-Nord e meno del 20% nell’Ue. Nel Mezzogiorno si concentra il 60% dei 2,3 milioni di lavoratori poveri italiani (circa 1,4 milioni). L’andamento positivo dell’occupazione non ha impedito l’aumento delle famiglie con persona di riferimento occupata in povertà assoluta nel Mezzogiorno: 9,5% nel 2023 dall’8,5% del 2021. L’aumento è stato addirittura di 3 punti percentuali per le famiglie con persona di riferimento occupata con qualifica di operaio o assimilato: dal 13,8 del 2021 al 16,8%.

La questione salariale nel Mezzogiorno, sottolinea il segretario confederale della Cgil, Christian Ferrari, è un’emergenza nell’emergenza, che spiega – più di ogni altra causa – l’esodo di 175.000 giovani meridionali nel triennio 2022–2024 verso altri territori del Paese e verso l’estero, per cercare un lavoro dignitoso e una vita migliore. Nel Sud quasi la metà dei lavoratori del settore privato ha percepito un salario inferiore ai 15 mila euro lordi annui che equivalgono, nel migliore dei casi, a circa 1.100 euro netti mensili. Le gabbie salariali, di fatto, esistono già e andrebbero superate, mentre non pochi le propongono addirittura come la soluzione. L’aumento dell’occupazione riguarda quasi solo gli over 50, spinto dall’innalzamento dell’età pensionabile, ed è trainato da settori a basso valore aggiunto, caratterizzati da lavoro povero e sfruttamento. Questo accade particolarmente nelle regioni meridionali, dove si concentrano i fattori negativi del mercato del lavoro: meno giornate retribuite, più precarietà, più part-time involontario e discontinuità lavorativa, meno occupazione femminile”.

Qui lo Studio dell’Ufficio Economia della Cgil Nazionale, a cura di Nicolò Giangrande: https://files.cgil.it/version/c:ZmUxMDVlZjktMzcwOS00:YTA2N2FmNzgtMmI5ZC00/20251211%20Studio%20CGIL%20-%20La%20questione%20salariale%20nel%20Mezzogiorno.%20Un%E2%80%99emergenza%20nell%E2%80%99emergenza.pdf.