A scuola oggi si può discutere di tutto, a patto di farlo come in un talk show secondo una logica televisiva che, non a caso, è la stessa che domina il discorso pubblico fino alle aule parlamentari. Par condicio, due posizioni contrapposte e un insegnante ridotto al ruolo di moderatore neutrale.
È in nome di questa idea di “spirito critico” che, per un webinar con Francesca Albanese, il ministro dell’Istruzione e del Merito ha minacciato l’avvio di un’ispezione in alcune scuole tra cui l’Istituto Enrico Mattei di San Lazzaro (BO).
La motivazione ufficiale dell’ispezione sarebbe la presunta violazione della nota del MIM n. 5836 del 7 novembre 2025, che impone, negli eventi scolastici su temi di rilevanza politica e sociale, il “pluralismo” e il “libero confronto di posizioni diverse”.
Una prescrizione che, letta così, sembra persino ragionevole. Se non fosse che applica alla scuola una logica per cui il confronto tra opposti sarebbe garanzia automatica di equilibrio, l’idea che il pensiero critico nasca per simmetria, come se bastasse affiancare due tesi perché la verità, o almeno la complessità, emerga da sola. Ora, senza scomodare Don Milani o Paulo Freire, è difficile sostenere che il pensiero critico autonomo si costruisca in questo modo.
La scuola non è un palco e gli studenti non sono un pubblico. Dispongono davvero tutti delle stesse risorse per orientarsi tra argomenti asimmetrici per potere, autorevolezza, accesso alle fonti? E soprattutto: è questo il ruolo educativo che si chiede oggi agli insegnanti?
Appare chiaro che la nota, seguita poi da un’ulteriore comunicazione che, a scanso di equivoci, ne chiarisce il carattere vincolante, non ha come obiettivo la tutela di un generico pluralismo, ma il controllo politico del discorso pubblico dentro la scuola e, insieme, l’annullamento di qualsiasi responsabilità e ruolo educativo da parte del docente.
Questo spazio di pluralismo indistinto delle voci ha dei limiti? E chi è legittimato a fissarli? Si potrebbe pensare che il nostro faro sia la Costituzione. Ma è proprio la Costituzione che, all’articolo 33, tutela la libertà di insegnamento: non un dettaglio, bensì un principio che rende problematica qualsiasi pretesa di neutralizzazione del ruolo educativo del docente.
Seguendo fino in fondo la logica della nota, allora, dovremo essere pronti: se a scuola invitiamo esponenti dell’ANPI, a metterci alla ricerca di un fascista che garantisca il contraddittorio; se il 25 novembre ascoltiamo le testimonianze di donne vittime di violenza, a prevedere anche la presenza di uno stupratore. Può sembrare una deriva paradossale, persino caricaturale. Eppure non è un’ipotesi così astratta se tutte le opinioni hanno diritto di cittadinanza in un indistinto pluralismo.
All’indomani della pubblicazione della nota, in un liceo veneziano il dirigente scolastico ha “sospeso per prudenza” un incontro sul radicamento delle mafie in Veneto. Lo stesso atteggiamento prudente ha portato, pochi giorni fa e sempre a Bologna, all’annullamento all’Aldrovandi Rubbiani di un incontro con due giovani israeliani obiettori di coscienza.
Alla censura ministeriale si affianca così l’autocensura: quando giornalisti, politici e ispettori arrivano con questa rapidità, l’effetto deterrente fa il resto.
La vicenda del Mattei prende avvio dalla lamentela di un genitore di una studentessa di quinta, coinvolta nel webinar con Albanese, indirizzata al Dirigente scolastico. Da lì, la notizia arriva rapidamente ai giornali, spinta da esponenti locali dei partiti di maggioranza che parlano di indottrinamento e, soprattutto, di una fantomatica mancanza di “consenso informato e scritto da parte dei genitori”.
Un’espressione non casuale, che richiama quanto previsto dal disegno di legge Valditara sulle attività inerenti alle tematiche legate alla sessualità, insieme al ricorrente riferimento al cosiddetto “primato educativo dei genitori”.
Nel frattempo, il ministro arriva a ventilare addirittura ipotesi di reato, mentre il Direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale annuncia prontamente l’avvio di accertamenti sulla vicenda. La macchina istituzionale del controllo si mette in moto con una rapidità che colpisce.
In questo clima, mentre il Dirigente del Mattei chiede alla docente coinvolta una relazione didattica dettagliata, il corpo docente dell’Istituto sottoscrive una lettera di sostegno alla collega e, insieme, una presa di posizione netta “per riaffermare con forza il principio della libertà di insegnamento”.
Solidarietà giunge da docenti di altri Istituti , qualche genitore chiede come potere esprimere il proprio sostegno alla docente, i sindacati lanciano comunicati (più o meno prudenti ), gli studenti cercano spazi d’incontro per confrontarsi.
Il “caso” del Mattei, e degli altri istituti emiliani e toscani, è espressione di una tendenza più ampia che riguarda la ridefinizione del ruolo della scuola nello spazio pubblico. Una scuola sempre più pensata come luogo da neutralizzare, in nome del pluralismo sbandierato che in realtà ne depotenzia il significato e il ruolo educativo.
In questo modello, il docente non è più un soggetto responsabile, ma un potenziale problema da monitorare; l’autonomia didattica non è una risorsa, ma un rischio da arginare.
La retorica del pluralismo e del “primato educativo dei genitori” funziona allora come dispositivo di delegittimazione: non serve a moltiplicare le voci, ma a svuotare di senso quella della scuola. Ogni scelta educativa diventa sospetta, ogni presa di parola deve essere bilanciata, ogni contenuto preventivamente autorizzato.
È così che l’educazione viene separata dalla sua dimensione politica, nel senso più profondo del termine: la formazione di cittadini capaci di comprendere, interpretare e contestare il reale.
Le ispezioni annunciate, le note ministeriali e le reazioni “prudenti” delle dirigenze non sono episodi scollegati, ma tasselli di uno stesso quadro. Un quadro in cui il controllo sostituisce la fiducia, la neutralità prende il posto della responsabilità educativa e la scuola viene progressivamente ricondotta a uno spazio amministrato, vigilato, depoliticizzato.
In questo scenario, il problema non è il singolo incontro, il singolo webinar o la singola docente chiamata a giustificarsi, ma il clima che si produce: un clima in cui insegnare diventa un’attività da difendere preventivamente, da documentare, da rendere inoffensiva.
È così che la censura più efficace non ha bisogno di essere esplicitata: basta che venga interiorizzata.
Difendere la libertà di insegnamento oggi significa affermare una precisa idea di scuola pubblica: un luogo in cui il pensiero critico non nasce per decreto, né per contraddittorio obbligato, ma attraverso il lavoro paziente, responsabile e inevitabilmente non neutro dell’educazione.










