Affrontata la pioggia scrosciante della domenica pomeriggio ci ritroviamo ancora una volta a parlare di Palestina, nel piccolo teatro a gradoni di Moltivolti, impresa sociale che, in pieno centro di Palermo, offre cibo e spazi di lavoro condivisi. Ci ha riuniti qui la bella iniziativa promossa da Aifcom, Associazione Italiana Famiglie e Coppie Miste, insieme ai volontari e alle volontarie di Refugees Welcome Italia che più tardi presenteranno il Progetto su Palermo e le iniziative volte a sostegno del popolo palestinese. Così ascoltiamo gli interventi dei nostri ospiti tra mamme che cullano i loro bimbi e bimbi che gattonano.

Cerchiamo insieme una risposta alla domanda “Che cosa possiamo fare?” già presente nell’invito, sotto il titolo “Umanità in bilico, la Palestina, noi e il futuro dell’essere umano”.

È opinione condivisa che, dopo le grandi manifestazioni dei mesi scorsi a sostegno del popolo palestinese, in questo tempo sospeso di tregua troppe volte interrotta, spacciata dalla narrazione mainstream come accordo di pace, sia indispensabile continuare a parlare di Palestina, ogni giorno, ognuno e ognuna con la propria voce, nel suo spazio di vita e poi ancora tutti e tutte insieme.

Intanto ascoltiamo.

Ascoltiamo, in collegamento da remoto, Giorgia Würth che ci racconta come, assistendo al primo genocidio in diretta della storia, la scrittura sia stata per lei il modo di resistere al dolore e cristallizzare il misto di sentimenti di rabbia, odio, impotenza. Nasce così il suo ultimo libro, Che la mia fine sia un racconto, che nel titolo cita un verso della ormai nota poesia di Refaat Alareer, poeta e attivista palestinese morto sotto i bombardamenti israeliani. Il racconto degli eventi che si sono succeduti in Palestina, con le loro voci dal conflitto, testimonia quello che è stato chiamato “effetto Gaza”, allargando il nostro sguardo dalla Palestina al resto del mondo, aiutandoci a decolonizzare l’immaginario in una sorta di palestinizzazione della re-esistenza.

Alberto Mascena, psicologo e superiore scientifico di “Vento di Terra”, prima ci presenta il genocidio in Palestina come fallimento dell’essere umano, ancora lo stesso delle rappresentazioni rupestri in cui erano raffigurate scene di uccisioni di altri esseri umani, poi ci propone la funzione avanguardistica dei palestinesi, non solo vittime, nella distopia di un mondo che sfata la consapevolezza della punizione del cattivo. Così, per non cadere nel baratro, la sua risposta si concretizza nell’investire sulla salute mentale a Gaza e ci invita a non idealizzare romanticamente la resilienza, accontentandoci per esempio del sostegno alla Sumud Flottilla. Il nostro impegno deve sostenere economicamente le risorse palestinesi, non serve un generico aiuto ma la restituzione della dignità di un popolo. Oggi qui sarà possibile farlo con una donazione alla Freedom Flottilla Italia a sostegno dell’ospedale Al-Awadi di Jabalya nella Striscia di Gaza.

Che sia necessario continuare a coltivare una narrazione diversa da tutte quelle precedenti, che affondano le radici già nell’occupazione del suo villaggio nel 1948, ce lo dice Mohammed Abushawish, Visiting Scholar presso l’Università di Milano-Bicocca e psicologo palestinese appena evacuato dalla Striscia di Gaza. Solo il racconto della sofferenza di un popolo può restituire verità alla storia. Ce lo dice in arabo, e sarà anche questo raccontare a singhiozzo alternando la sua voce a quella della traduttrice, che commuove il nostro ascolto, indirizza i nostri sguardi, sospende il tempo. Vuole darci i numeri di quella che non considera una crisi umanitaria ma una vera e propria crisi dell’umanità ma ci invita a ricordare che dietro i numeri ci sono persone, sogni, ambizioni, futuro, tutti insieme distrutti in un istante.

Ascoltiamo il numero dei morti, delle famiglie cancellate dai registri, dei feriti.  Ad ogni numero segue un racconto in prima persona, ci dona pezzi della sua vita come testimonianza della catastrofe generale.

I morti stanno tutti nel ragazzo arrivato in ospedale con ferite così gravi da non potere essere curate, accompagnato dal fratello che chiede disperatamente aiuto e a cui lui, da psicologo, può solo alleviare il dolore della perdita. Le famiglie sono quelle dello zio, morto con altre dieci persone nella sua casa sotto le bombe. I feriti sono nel dilemma della scelta, non potendo salvare tutti, i troppi, che riempiono i letti e ancora di più i pavimenti del suo ospedale.

E ancora la distruzione delle case, degli ospedali, delle moschee, delle scuole.

Poi gli spostamenti, fughe forzate verso zone spacciate falsamente come sicure. Ogni famiglia, a Gaza, è stata costretta a spostarsi almeno una volta. Alcune anche dieci volte.

La fame: avere un pezzo di pane sembra un miracolo. E ci racconta del pianto della figlia per un pezzo di pane, prendendo aria prima di parlare e a noi manca il fiato. Sembriamo tutti pesare le parole, lui che le dice e noi che le ascoltiamo, come a volere raccogliere briciole di quel pezzo di pane che non c’è.

E siamo insieme a lui di fronte alle corse e alle grida dei bambini della grande famiglia rifugiata nella sua casa, alla ricerca di un modo per calmarli trovato infine in un cartone animato, proiettato collegando un generatore alla tv, facendo cioè ricorso al suo essere uomo, padre, piuttosto che psicologo. Nasce così l’idea del teatro per bambini alla luce delle candele, nei campi profughi.

Sono i suoi figli, a cui la guerra ha interrotto gli studi e i sogni, che lo spingono a partire, da solo, quando arriva la chiamata dell’ambasciata per l’Italia, un viaggio di sola andata, proprio quando gli viene confidato che la moglie è di nuovo incinta, e lui è già via ma con la speranza di un ricongiungimento. A Milano lo accoglie l’abbraccio di una delle manifestazioni settimanali, riconosce il senso del suo essere qui, in Italia, per parlare di cosa succede lì, a casa.

Anche voi continuate a parlare di Palestina, dite la verità, ci esorta concludendo il suo intervento con la lettura di una sua poesia.

Alla sua segue la voce di Zaher Darwish, palestinese d’Italia e italiano di Palestina, per l’Associazione Voci nel silenzio, a capo chino nell’ascoltare il racconto del suo connazionale. Ha gli occhi lucidi ma non esita a inchiodarci alle nostre responsabilità: il nostro paese, l’Italia, è tra i primi fornitori di armi ad Israele, il nostro presidente della Repubblica ha stretto la mano del presidente israeliano, la stessa con cui aveva firmato i missili destinati a bombardare Gaza. Siamo responsabili del silenzio negli anni, nonostante, sin dalla sua costituzione, Israele si sia rivelato come negazione dei diritti altrui. Non trattiene le lacrime, Zaher, nel raccontare la nostra complicità nelle sofferenze del popolo palestinese, e ci interroga. Parlate di pace. Con chi dovrebbe fare pace il suo popolo? Voi siciliani, volete fare pace con la mafia?

Così, alla ricerca di risposte, resta aperta una domanda che interroga le nostre coscienze, le nostre appartenenze, le nostre pratiche.

Così, per non cadere nel baratro, restiamo in bilico, aggrappati anche noi alla certezza, espressa da Mohammed Ashawish nel rispondere alla domanda in quale sia la sua forza di fronte a tanto male, di essere dalla parte della verità, nonostante le sue contraddizioni, insieme all’amore per la vita dei palestinesi e alla consapevolezza che anche nel male c’è del bene. Nel buio pesto una candela accesa fa la differenza.