A Freetown la memoria del conflitto parla ai giovani e diventa digitale
Freetown (Sierra Leone), 4 ott. – “Gli studenti si siedono proprio qui”, dice indicando la sala all’ingresso Benjamin Tengbeh, la guida che ci accompagna al Museo della pace. Siamo a Freetown, in Sierra Leone: un Paese con un’età media di 21 anni, dove la maggior parte della popolazione è troppo giovane per aver visto il conflitto civile combattuto tra il 1991 e il 2002. “Sulle cause e le responsabilità ognuno vede le cose a modo suo, ma di una cosa siamo tutti certi” riprende Tengbeh: “La guerra deve essere messa al bando, per sempre”.
Il Museo della pace si trova nel quartiere di Aberdeen, di fronte all’Atlantico. È stato creato nel 2013, poco prima che si concludessero i lavori del Tribunale speciale per la Sierra Leone, la corte istituita dal governo locale con il supporto delle Nazioni Unite per giudicare i crimini commessi durante il conflitto.
Da una parte, c’erano i ribelli del Revolutionary United Front (Ruf), che volevano rovesciare l’esecutivo di Freetown partendo dalle regioni al confine con la Liberia; dall’altra parte, i soldati fedeli all’Armed Forces Revolutionary Council (Afrc) e i paramilitari delle Civilian Defence Forces (Cdf). Alle pareti ci sono foto dei carnefici, dita sul grilletto, cartuccere e kalashnikov. Nelle teche di vetro sono conservati invece giubbotti di stoffa con amuleti cuciti nei risvolti: “I ragazzini con il fucile”, spiega Tengbeh, “credevano che li proteggessero dai proiettili”.
I morti furono almeno 120mila. Charles Taylor, ex presidente della Liberia che sosteneva i ribelli del Ruf, è stato condannato dalla Corte speciale a 50 anni di carcere. Undici i capi d’accusa per i quali è stato riconosciuto colpevole nel 2013: dal terrorismo all’omicidio, dalla riduzione in schiavitù sessuale all’arruolamento di bambini-soldato. Indicativi i nomi dati dai ribelli alle loro offensive: furono chiamate anche “No Living Thing”, in italiano “Nessuna cosa vivente”, come a dire non ci sarà pietà, o “Pay Yourself”, “Pagati da solo”, un invito al saccheggio, ovunque fosse possibile.
Sono state emesse condanne anche a carico di comandanti dell’esercito e di paramilitari. Appesi alle pareti ci sono poi ritratti dei segretari generali delle Nazioni Unite che sostennero i lavori della Corte, a cominciare dal ghanese Kofi Annan.
E proprio qualche giorno fa, di fronte all’Assemblea generale dell’Onu, il presidente della Sierra Leone, Julius Maada Bio, ha ammonito contro tutte le guerre. “Cessate il fuoco ora a Gaza, cessate il fuoco ora in Sudan, cessate il fuoco ora in Ucraina” le sue parole, anche un atto di accusa nei confronti dei governi e delle potenze che ai bombardamenti non dicono basta. Un veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu, secondo Maada Bio, “non dovrebbe mai essere un verdetto contro l’umanità”.
Al Museo intanto continua il lavoro di digitalizzazione dei documenti d’archivio, in particolare di quelli della Commissione verità e riconciliazione. Si tratta di un organismo istituito dopo la fine del conflitto, che lavorò tra il 2002 e il 2004, impegnandosi anche nella raccolta e nella traduzione delle testimonianze rese in krio, mende, temne, fula e nelle tante altre lingue parlate in Sierra Leone. Il compito è custodire la memoria storica, “in modo imparziale”, facendosi carico dei “bisogni delle vittime” e riconoscendo loro, di nuovo, “dignità umana”. Una lezione, al Museo della pace, per gli alunni delle scuole.










