Mercoledì 1° ottobre, ore 21.30. In centinaia di appartamenti a Milano uomini e donne si muovono inquieti. I ragazzi e le ragazze hanno fatto prima, hanno più forza, più energie. Hanno infilato le scarpe e sono usciti. Autobus, metropolitana, tram, ma soprattutto in bici per poter tornare tardi. Escono, corrono verso il centro.
Gli adulti esitano un po’: la stanchezza, la cucina sistemata, le pantofole: guardano la porta. La televisione è accesa, forse anche la radio, ma i messaggi sul cellulare fioccano…
È un momento: infili le scarpe, che non sono rotte “eppur bisogna andar”. Spegni le luci, apri la porta che oramai era chiusa a chiave, scendi le scale e corri, corri… sei in ritardo. Chiami qualcuno: “Sei lì? Sto arrivando!”
Arrivi di corsa, leghi la bici, ti tuffi letteralmente nel corteo che è già partito. Tornano tutte le forze, ringiovanisci in un battibaleno. Incontri, abbracci, vedi amici, persone… se ci sono anche loro allora ci siamo proprio tutti.
Più di due ore in notturna. Stavolta si ascolta poco, si grida tanto, tantissimo. Qualcuno entra anche in stazione, a Cadorna, blocca per un po’ i binari. Non si poteva fare anche dieci giorni fa in Stazione Centrale? Lasciamo perdere.
Il corteo fa avanti e indietro per le strade della città. Il centro è nostro. Fino all’una. Fino a Piazza Duomo.
Meno male che siamo venuti in bici. Si carica in canna qualcuno, come ai vecchi tempi. Milano sembra più bella.
Si torna a casa distrutti, ma le scarpe rimangono vicine alla porta.










