Da Nairobi al Nepal, dal Perù al Botswana, fino al Madagascar e al Marocco: i giovani scendono in piazza in tutto il mondo. Nonostante le grandi differenze culturali e le motivazioni diverse che animano le proteste, alcuni codici e linguaggi comuni si diffondono e connettono le piazze globali, superando persino il muro degli algoritmi. Ma interpretare le proteste della Generazione Z solo come un’urgenza generazionale sarebbe riduttivo.
“…vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare. Non vogliamo essere subito già così sicuri. Non vogliamo essere subito già così senza sogni.” Sono passati 50 anni da quando Pier Paolo Pasolini rifletteva sui giovani con lucidità e passione. Eppure sembrano parole scritte ieri mattina, tra le grida della Gen Z ad Antananarivo.
Per un certo periodo, il 2019 è stato definito “l’anno della protesta”, con disordini civili che invasero le strade da Hong Kong all’Egitto. Prima ancora, il titolo spettava al 2011, segnato da Occupy Wall Street e dalle rivolte pro-democrazia della primavera araba in Medio Oriente. Oggi siamo nel pieno di una nuova ondata globale: le proteste della Generazione Z si diffondono ovunque, ridefinendo linguaggi, strumenti e spazi della mobilitazione.
Ma non erano sdraiati?
L’età media in Africa è di appena 19 anni: la più bassa al mondo. Per confronto, in Europa l’età media è di 42 anni. Quasi il 60% della popolazione africana ha meno di 25 anni, la più alta concentrazione giovanile al mondo, mentre il 70% è sotto i 35. Su un totale di 1,47 miliardi di abitanti, quasi 900 milioni sono giovani. I dieci Paesi più giovani del mondo? Tutti africani.
Sarebbe dunque quantomeno riduttivo interpretare le proteste della Generazione Z esclusivamente come un’urgenza generazionale: in Africa, la Gen Z non è una minoranza ribelle. È la maggioranza assoluta. Le mobilitazioni giovanili nel sud del mondo assumono quindi un peso e un valore del tutto diversi, perché esprimono la voce prevalente.
A differenza delle primavere arabe, dove mancava una chiara identificazione generazionale, le proteste attuali si distinguono per un preciso riferimento ai protagonisti: è evidente chi sono, da dove parlano e quale generazione rappresentano. Questo elemento identitario è centrale per capire la cifra di questa generazione.
La Gen Z si propone come possibile futuro movimento di liberazione dai sistemi post-coloniali, che, pur formalmente democratici, hanno perpetuato meccanismi di esclusione. Le elezioni, in questi contesti, hanno spesso garantito diritti e privilegi solo alle élite, lasciando ai margini la maggior parte della popolazione. Giovani in primis.
Un altro tratto distintivo è il rifiuto della violenza. La rivendicazione della natura pacifica delle rivolte è costante: “Siamo un movimento pacifico, rinneghiamo qualsiasi forma di violenza”. Questa dichiarazione non è episodica, ma viene ripetuta sistematicamente, a sottolineare l’impegno etico e strategico verso la nonviolenza.
Parallelamente, questi ragazzi si caratterizzano per l’assenza di una leadership tradizionale: non esiste un leader riconosciuto, né un portavoce ufficiale e pur non avendo alcuna affiliazione partitica, sono gli attivisti stessi a cercare il dialogo con esperti politici e figure di rilievo. Infine non vi è alcun riferimento religioso nelle loro rivendicazioni.
I millennial occidentali, tra un aperitivo l’altro, sentenziavano che “i giovani non credono nel futuro”, o che erano troppo superficiali, troppo egocentrici. Oggi iniziano a capire che quando la maggioranza ha vent’anni, la percezione del tempo, della storia, del potere e del cambiamento si ribalta. What’s behind Africa’s youth-led protests?” (Cosa c’è dietro le proteste guidate dai giovani in Africa?) titolava il New York Times la scorsa settimana, “In pochi mesi, la Gen Z ha abbattuto diversi governi. Chi sarà il prossimo?” riassume il settimanale francese Jeune Afrique, mentre il quotidiano di Nairobi Daily Nation titola: “In tutta l’Africa e oltre, le rivolte giovanili stanno costringendo i leader a fare marcia indietro”.
Nonostante le grandi differenze culturali e le diverse motivazioni che muovono le proteste, alcuni codici e linguaggi si diffondono e connettono le piazze di tutto il mondo, sfondando il muro dell’algoritmo.
I social media hanno un modo tutto loro molto specifico e velocissimo di unificare e collegare le voci e le esperienze più disparate, questo permette alle singole persone di vedere le loro personali – talvolta intime – esperienze di disuguaglianza, come un’unica ingiustizia collettiva. Non è poco.
Nel 2025, Discord – piattaforma lanciata nel 2015 come spazio di chat per videogiocatori – si è affermata come uno degli strumenti più potenti di mobilitazione politica e sociale della Generazione Z. Con una presenza capillare che si estende dall’Asia all’Africa, la piattaforma conta oggi 200 milioni di utenti mensili attivi che quotidianamente scrivono su questa piattaforma, votano, creano dei sondaggi dove fanno delle domande ai partecipanti e sulla base di quello, decidono le proprie istanze.
Un esempio emblematico è il server che ospita la “GenZ 212” che in meno di un mese ha superato i 250.000 iscritti, con una partecipazione media di 40.000 utenti giornalieri e oltre 6.000 persone collegate contemporaneamente durante le assemblee vocali serali.
“Ci stiamo convalidando a vicenda. Ci stiamo ispirando a vicenda e prendiamo coraggio l’uno dall’altro” commenta in chat su Discord una ragazza marocchina.
In “Se noi bruciamo” del 2023 il giornalista e scrittore americano Vincent Bevins analizzava dieci anni di rivolte globali, dal 2010 al 2020, mostrando – a suo dire – come quelle proteste, pur generando immense speranze, non fossero riuscite a tradursi in cambiamenti strutturali duraturi. Quasi ovunque – scriveva – dopo una fiammata iniziale, si è vista la restaurazione di regimi autoritari o la cooptazione da parte di nuove élite politiche.
Ma è davvero così?
Il Movimento degli Ombrelli di Hong Kong, nato nel 2014 e riemerso nel 2019, è stato una di quelle maree che promettevano un futuro diverso. Ma quelle richieste democratiche furono rigettate e la dirigenza di Pechino consolidò la propria presa.
Anche in Egitto e Tunisia, tra il 2010 e il 2013, erano state annunciate le famose Primavere arabe: giovani blogger, attivisti e cittadini comuni si ribellarono alla lunga notte dei regimi autoritari. Le Primavere, nate come canto di libertà, finirono tuttavia per lasciare dietro di sé un panorama di disillusione: le rivoluzioni che promettevano libertà e giustizia si infransero contro vecchie élite e istituzioni fragili.
Più lontano però, in Nepal, la Gen Z ha trasformato i social network in uno strumento di potere politico inedito. La mobilitazione giovanile, attiva online contro la corruzione e la stagnazione dei partiti tradizionali, ha spinto fino all’elezione – avvenuta simbolicamente su Discord e confermata poi in parlamento – della prima premier donna della nazione himalayana.
Anche nelle Filippine le proteste sono state motivate dalla rabbia popolare contro la corruzione della classe dirigente. La manifestazione più imponente si è tenuta il 21 settembre 2025 a Manila e in altre grandi città, richiamando decine di migliaia di persone. I partecipanti hanno denunciato lo scandalo dei “progetti fantasma” per il controllo delle inondazioni, chiedendo trasparenza, responsabilità e la fine dell’impunità politica.
In Perù, dopo la grande ondata di proteste del 27 settembre è emersa una nuova ondata di mobilitazioni giovanili. A Lima, nelle ultime ore è in corso una crisi politica e sociale molto grave, con tensioni tra manifestanti e forze dell’ordine, stato d’emergenza attivo, più di cento feriti, tra cui decine di agenti e diversi giornalisti e forti richieste di riforma e sicurezza da parte della popolazione giovanile e civile. Il presidente Jerí ha escluso dimissioni e ha chiesto al Parlamento poteri speciali per contrastare l’insicurezza e la criminalità, dichiarando tolleranza zero verso le “infiltrazioni criminali nei cortei”. Nel frattempo si teme un’ulteriore escalation nelle prossime ore.
Nel 2024, la Generazione Z del Kenya è scesa in piazza – contro la proposta di legge finanziaria del governo Ruto. La mobilitazione, nonostante la repressione, segnò un punto di svolta politico. Di fronte alla pressione della società civile e all’indignazione internazionale, Ruto ritirò la legge finanziaria e, poche settimane dopo, sostituì diversi ministri del gabinetto. Nel settembre scorso dopo nuovi episodi di violenza e arresti, le proteste si sono riaccese, confermando che la generazione digitale keniota non arretra.
In Botswana un elettorato giovane e desideroso di cambiamento ha avuto un ruolo decisivo nel porre fine a quasi sessant’anni di dominio del Partito Democratico del Botswana, che governava sin dall’indipendenza del 1966. Allo stesso modo, in Sudafrica, anche la crescente disillusione tra i giovani ha contribuito al crollo del sostegno per l’African National Congress, sceso per la prima volta dal 1994 sotto la soglia del 50 per cento dei voti.
In Senegal, i giovani che avevano difeso Ousmane Sonko nei tribunali e nelle strade sono diventati base elettorale che ha portato Diomaye Faye alla presidenza nel marzo 2024. Dopo mesi di crisi istituzionale, arresti e sospensione del voto, fu proprio la pressione dei giovani e delle reti civiche – eredi di “Y’en a Marre” – a pretendere elezioni regolari.
Marocco e Madagascar sono storia in corso. Nel 2011 i giovani marocchini avevano ottenuto la revisione costituzionale, ed oggi dopo mesi di malcontento, la voce del movimento “Gen Z 212” ha spinto il re Mohammed VI a non ignorarli. Nel suo discorso del 10 ottobre, pur evitando ogni riferimento diretto alle manifestazioni della “Gen Z 212”, Mohammed VI ha invitato il governo a «rafforzare il patto sociale» e ad accelerare gli investimenti in sanità, istruzione e coesione territoriale, riconoscendo implicitamente le priorità indicate dal movimento
Il Madagascar è tornato al centro dell’attenzione internazionale grazie alla straordinaria mobilitazione giovanile. Le proteste, le più imponenti degli ultimi anni, hanno costretto il presidente Andry Rajoelina a lasciare il paese; in seguito, il Parlamento ha approvato la rimozione formale del capo dello Stato. Il potere è passato a un Consiglio Militare di transizione, che ha sospeso la Costituzione e sciolto la maggior parte delle istituzioni, lasciando in funzione soltanto l’Assemblea nazionale, incaricata di guidare il Paese verso elezioni da indire “entro 24 mesi”.
Il filo rosso che unisce queste storie – e non solo – è la speranza di trasformare l’indignazione in progetto, è il tentativo della Gen Z di rigenerare una politica nuova, spinta dal basso, e di forzarla a muoversi.
Perché non accada più che un ventenne scriva “Me ne vado, mamma, perdonami… i rimproveri sono inutili in quest’epoca crudele… io non ne posso più di piangere senza lacrime.” come fece Mohamed Bouazizi prima di darsi fuoco la mattina del 17 dicembre 2010, davanti alla sede del governatorato di Sidi Bouzid in Tunisia. Perché nessuno possa più dire: “Non spingete”!










