Pubblichiamo l’interessante contributo di Sandro Mezzadra – professore ordinario di Filosofia politica – con il quale, partendo dalle ‘quattro giornate internazionali ’ pro-Flotilla contro il genocidio, il docente dell’Università di Bologna prefigura per le sorti del popolo palestinese il probabile scenario politico che, in quel di Sharm el-Sheikh, si starebbe determinando: in base alle attuali condizioni israelo-americane imposte, delineate nel piano di pacificazione trumpiana, quell’autodeterminazione – da oltre mezzo secolo agognata nei territori palestinesi (definiti tali secondo le risoluzioni ONU deliberate negli anni) e per cui intere generazioni si sono legittimamente battute in opposizione all’occupazione sionista – rischierebbe seriamente oggi di essere del tutto cancellata, come scrive Mezzadra, “dal novero delle possibilità”[accì]
Esondazione, rottura degli argini: queste espressioni, che nel loro significato letterale annunciano distruzione, ben si prestano a catturare quello che abbiamo vissuto nelle quattro memorabili giornate di mobilitazione permanente dal momento in cui la Global Sumud Flotilla è stata bloccata in acque internazionali dalla marina militare di uno Stato genocida. Gioia e rabbia si sono combinate in proporzioni variabili in tutto il Paese, mentre una nuova composizione sociale prendeva le strade, bloccava porti, stazioni, autostrade. Una soglia è stata varcata, mentre l’Italia è tornata a dettare il ritmo della mobilitazione in Europa – da Berlino ad Amsterdam, da Madrid a Lisbona.
“Volevamo liberare la Palestina”, si è letto su un cartello a Roma, “la Palestina ha liberato noi”. È certo che in questi giorni una moltitudine di ragazzi e ragazze, di donne e uomini ha visto nel genocidio di Gaza l’immagine riflessa dell’ingiustizia che in modi diversi domina il mondo in cui viviamo – e nella liberazione della Palestina il nuovo orizzonte di una lotta più generale, da articolare in ogni luogo in cui si vive, si lavora e si soffre. È una prima indicazione su come proseguire nei prossimi giorni la mobilitazione: occorre dare una prospettiva di distensione temporale al movimento di questi giorni, e questo è possibile soltanto coniugando la solidarietà con Gaza con un più generale radicamento nel quotidiano dell’iniziativa politica.
E però non dimentichiamo che Gaza e la Palestina, pur nel loro potente farsi “globali”, continuano a essere luoghi ben precisi, in cui il genocidio non si ferma e la devastazione supera in intensità quella determinata da qualsiasi fiume sia mai esondato nella storia. Si calcola che, se ogni giorno uscissero da Gaza cento camion, le macerie non verrebbero sgombrate prima del 2050: tale è la violenza dell’urbicidio, della distruzione sistematica non solo delle vite ma anche delle condizioni che rendono possibile la riproduzione della vita. Chi parla di “pace”, riferendosi al “piano Trump”, ha forse in mente le parole di Tacito: hanno fatto il deserto e lo chiamano pace.
Nel momento in cui Hamas accetta lo scambio di ostaggi e prigionieri e pare che si riaprano i negoziati, è bene comunque chiarire che cosa è il “piano Trump”. L’indeterminatezza lo caratterizza a pieno vantaggio di Israele, su punti cruciali come il ritiro dell’esercito e il “disarmo di Hamas”. Le operazioni militari delle IDF possono riprendere in ogni momento (e infatti, subito dopo l’invito di Trump a sospenderle, sono continuati i bombardamenti aerei e di artiglieria e almeno undici palestinesi sono stati uccisi al momento in cui scrivo). Nulla si dice poi, nel piano, sulla Cisgiordania, dove la penetrazione dei coloni ha da tempo spezzato l’unità del territorio spingendo la popolazione palestinese in aree accerchiate che prefigurano veri e propri bantustan secondo la logica dell’apartheid. L’autodeterminazione palestinese viene così efficacemente cancellata dal novero delle possibilità.
L’impronta coloniale del “piano Trump” è del resto cristallina, con la riproposizione della logica del “mandato” che istituì nel 1920 il controllo britannico sulla Palestina. Riproposizione, sì, ma anche aggiornamento: il “comitato tecnocratico e apolitico palestinese” a cui si intende assegnare “la gestione quotidiana dei servizi pubblici e delle municipalità per il popolo di Gaza” dovrebbe operare sotto “la vigilanza e la supervisione” di un Board of Peace, presieduto dallo stesso Trump e con il coordinamento esecutivo di Tony Blair. Di quest’ultimo ricordiamo le certificate menzogne per giustificare la guerra in Iraq, ma anche l’attivismo degli ultimi anni come consulente di diversi governi del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti). Ed è proprio il modello del Golfo che il “piano Trump” sembra prospettare per Gaza, una “zona economica speciale” con copiosi investimenti di capitali provenienti da quell’area e non solo.
Non mancano gli ostacoli a questo piano (che prevederebbe tra l’altro la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita). Qui mi limito a mettere in evidenza la pretesa di “risolvere” il conflitto israelo-palestinese con una logica puramente di business, attraverso la semplice negazione dell’esistenza di una “questione palestinese” e la proposta per i gazawi – fatta eccezione per i pochi “tecnocrati” – dell’alternativa tra condizione servile ed esilio. Intervistato da Al Jazeera, Norman Finkelstein ha ricordato che fin dai tempi di Jimmy Carter quasi ogni Presidente statunitense ha presentato un piano per “la pace in Medio Oriente”: quello di Trump è il primo che non cita nessuna risoluzione delle Nazioni Unite, nessun accordo internazionale, muovendosi appunto in modo esclusivo sul piano del business – del movimento e della valorizzazione del capitale.
Si può vedere in questo un momento della più generale congiuntura di guerra in cui stiamo vivendo, dove la riorganizzazione degli spazi economici è una posta in gioco cruciale. Ma per quel che riguarda il movimento che ha dato vita alle quattro memorabili giornate appena trascorse, i compiti dovrebbero essere piuttosto chiari, anche se tutt’altro che facili da tradurre in pratica: la lotta contro il genocidio, per la Palestina libera, deve approfondirsi e andare al di là delle grandi manifestazioni che restano comunque necessarie. Mentre il cessate il fuoco è un obiettivo che deve essere perseguito con ogni mezzo necessario, sabotare il “piano Trump” e aprire una prospettiva di vera pace significa denunciare e boicottare le mille forme di complicità con la macchina di morte di Israele che esistono in Italia e in Europa. È un appello all’intelligenza collettiva, al lavoro di inchiesta e alla capacità di intervenire in modi efficaci.
Pur travolti dall’esondazione del movimento la scorsa settimana, siamo consapevoli della disparità delle forze in campo, tanto a livello interno quanto a livello internazionale; conosciamo le difficoltà che sempre si incontrano quando l’esplosione di un movimento di massa deve essere tradotta in una forza politica capace di durare nel tempo; e sappiamo bene soprattutto che la partita non si gioca certo soltanto sul piano italiano. Ma quel che è successo qui – tra l’altro, due scioperi generali politici in dieci giorni – può certo funzionare come indicazione generale, in Europa come altrove. Se il movimento continuerà a esondare, uscendo dai confini nazionali, anche la disparità delle forze comincerà a essere messa in discussione.










