Sono in quattro, elegantissime e in bianco, ma non sono spose: fanno parte del coro resistente (il Resistant revival chourus) di Brooklyn; nel candore che emanano brillano vistosi orecchini dorati, una kefiya di quelle belle, ricamate a mano a quadri bianchi e neri, drappeggiata su una spalla, e un grosso pugno nero stampato su una camicetta, simbolo della lotta antifascista.

Sono loro ad aprire l’evento. Ci deliziano con gospel a tema resistente, ma non basta: dobbiamo partecipare. Ci istruiscono nelle parole da ripetere e dividono la sala in due cori, per ottenere più voci. Cantiamo tutti e battiamo le mani. L’effetto è notevole, l’acustica è ottima, ma certo mi ricordo che siamo in una chiesa, anche se non ci sono croci e non invochiamo Dio o gli angeli, ma la nostra umanità, proprio come recita il cartello affisso sotto al leggio: “NO! In the Name of Humanity we REFUSE to Accept a Fascist America” (NO! In nome dell’umanità rifiutiamo di accettare un’America fascista).

Siamo in un edificio d’epoca in downtown Brooklyn che ospita una congregazione quacchera, un movimento cristiano protestante che si è sempre distinto per le sue posizioni pacifiste, abolizioniste e anti-militariste. Oggi accolgono l’iniziativa “Trump must go now!” promossa da Refusefascism, un gruppo che vuole portare migliaia di persone a Washington in una marcia pacifica il prossimo 5 novembre, per la ricorrenza dell’elezione del presidente avvenuta lo scorso anno.

Il punto è proprio questo: il presidente non rispetta le regole democratiche e noi, il popolo americano, non possiamo aspettare altri tre anni perché alla fine non ci sarà più la democrazia – Trump avrà distrutto tutto. Il livello di preoccupazione tra i presenti è alto; chi è venuto qua oggi è molto motivato (e siamo in parecchi, l’auditorium è tutto pieno). Gli applausi ai relatori sono frequenti, spontanei e calorosi.

Al microfono si alternano varie figure: ci sono donne con fare matronale che incitano a non lasciarsi spaventare, altre minute che recitano poesie, un anziano nero che rifiutò di arruolarsi al tempo della guerra in Vietnam (lo incarcerarono), un regista e attivista religioso bianco che cita Gesù, Gandhi e Martin Luther King, e altri oratori ancora; tutti chiedono di stare uniti, lo auspicano, lo pregano.

Il fascismo viene analizzato da ogni angolo possibile. “Fascismo” è quando qualcuno si può permettere di fermarti per la strada perché non gli piace come sei vestito, perché nelle tue parole sente un accento che non gli va bene, per il colore della tua pelle; è uno che può umiliarti pubblicamente, portarti via contro la tua volontà, farti addirittura sparire e rimanere impunito. Questo è ciò che fa l’ICE (Immigration and Custom Enforcement), la speciale milizia usata da Trump per scovare gli immigrati irregolari.

E per di più il sedicente governo “democratico” con scuse e con la copertura di una Corte Suprema comprata, ignorando la Costituzione e bypassando il Congresso, sta militarizzando le città. È successo a Los Angeles, sta accadendo a Portland e presto arriverà a Washington. New York non è al riparo, è piuttosto in un limbo per via delle elezioni per il nuovo sindaco. E se perderemo? Se Zohran Mamdani perderà che cosa succederà? Trump ha minacciato che, se vincerà il candidato socialista, toglierà alla città i fondi federali. Per legge non potrebbe farlo (è infatti una assurdità e mi chiedo quale sarebbe la colpa di Zohran e dei newyorkesi?), ma tante cose non potrebbe farle e le sta facendo, imbrogliando, ricattando e mentendo. Ecco altre caratteristiche comuni a ogni fascismo: minacciare, ricattare e mentire.

Nell’ascoltare mi viene la pelle d’oca, ma mi vengono anche in mente le parole di mia nonna quando ero bambina negli anni ’70 dello scorso secolo; poco e nulla sapevo del fascismo, ma avevo capito che, con quel “loro” detto con disprezzo e quasi schifo, indicava qualcuno che aveva fatto tanto male agli altri. Diceva: “Ah, quando c’erano loro al governo non si poteva fiatare, voi siete nati fortunati”.

Rifletto su quegli uomini e donne spesso sconosciuti che nel passato in ogni parte del pianeta hanno sofferto l’oppressione e vi hanno resistito e di nuovo penso ai miei nonni: dobbiamo a loro la nostra nascita libera.  È a loro, a questi comuni cittadini, che dobbiamo ispirarci.

La lotta deve essere assolutamente nonviolenta ma contagiosa, dobbiamo diventare milioni di pacifici resistenti presenti ovunque e dobbiamo ripetere l’impresa compiuta nel 1963 con la storica marcia su Washington di Martin Luther King.

La prima parte dell’evento termina con nuovi cori d’incitazione e pugni alzati. La seconda prevede la creazione di gruppi di lavoro. La mia vicina di posto mi saluta e si avvia verso il team dei legali; altri si distribuiscono in varie direzioni. C’è chi si occupa dell’organizzazione dei pullman, chi della raccolta fondi, chi della preparazione dei biscotti, indispensabili per la buona riuscita degli happening. Su questi ultimi, confesso, faccio un pensierino, ma poi decido che è meglio tornare a casa a raccontare ciò che è successo oggi.