«Ogni bambino che non viene aiutato a essere se stesso diventa un adulto che faticherà a vivere».
La morte di Paolo Mendico, il quattordicenne di Santi Cosma e Damiano che il 14 settembre ha deciso di togliersi la vita, rende questa frase terribilmente attuale. Sono passati alcuni giorni e ancora oggi le domande restano senza risposta. La Procura di Cassino ha avviato indagini, l’autopsia è in corso, i dispositivi del ragazzo sono stati sequestrati. Intanto il Ministero ha avviato audizioni nella scuola che frequentava. I familiari parlano di episodi di bullismo e di vessazioni online, che forse hanno scavato nel tempo un solco di dolore.
Il fatto è avvenuto a poche ore dall’inizio del nuovo anno scolastico. Per molti ragazzi questo momento coincide con l’entusiasmo di rivedere i compagni, con il desiderio di fare progetti e condividere nuove esperienze. Per altri, invece, può trasformarsi in un passaggio doloroso, carico di ansia, isolamento e paura. È in ciò che non vediamo, nei dettagli che sfuggono al nostro sguardo distratto, che a volte si nasconde il dolore più profondo.
Ogni comunità che vive una tragedia simile resta sospesa tra lo sgomento e il senso di colpa. Ci si interroga su ciò che forse non è stato visto, sui segnali che potrebbero essere sfuggiti. Non esistono risposte semplici, ma esiste il dovere di fermarsi e riflettere insieme.
Quello di Paolo non è un caso isolato. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel mondo oltre settecentoventimila persone si tolgono la vita ogni anno, e per i giovani tra i quindici e i ventinove anni il suicidio è la terza causa di morte. Anche tra i giovanissimi la realtà è dura: nella fascia dieci–quattordici anni si contano più di ottomila decessi l’anno.
In Europa l’UNICEF stima che tre adolescenti al giorno muoiano per suicidio, e ricorda che ansia e depressione costituiscono più della metà dei disturbi mentali giovanili. In Italia l’ISTAT registra quasi quattromila suicidi nel 2021, con un aumento del sedici per cento tra i quindici e i trentaquattro anni rispetto al 2020.
Questi dati non possono essere letti di fretta, come fossero solo statistiche. È importante leggerli con attenzione e soffermarcisi con il pensiero, perché sono gli unici che ci restituiscono la dimensione reale delle cose. Dietro ogni cifra ci sono volti, storie, famiglie, comunità. Solo se partiamo da qui possiamo comprendere la gravità del problema e la necessità di agire.
La scuola, che dovrebbe essere il luogo dove crescere e sentirsi accolti, diventa a volte anche lo spazio dove emergono dinamiche di esclusione e bullismo. Non è per mancanza di volontà o negligenza degli insegnanti, ma perché troppo spesso mancano strumenti, tempo e formazione. Non si può lasciare la valutazione del disagio adolescenziale alla sola sensibilità individuale, anche quando a doverlo affrontare sono operatori dell’istruzione di grande dedizione. La scuola deve essere messa nelle condizioni di operare con competenze adeguate, supportata da figure professionali formate e da percorsi che rendano la prevenzione parte integrante della vita scolastica.
Un altro nodo cruciale è la salute mentale. È stato avviato un piano per portare lo psicologo nelle scuole, ma la presenza resta frammentaria, legata a progetti temporanei. Un ragazzo che soffre non può aspettare: ha bisogno di un punto di ascolto stabile, di un adulto formato, di una porta aperta sempre.
Il disagio adolescenziale non è soltanto un dramma privato, ma una ferita sociale. È il segno che la comunità non è stata capace di proteggere i suoi membri più vulnerabili. Non possiamo pensare che sia un problema della sola scuola, o della sola famiglia. È una responsabilità che riguarda tutti: istituzioni, operatori sanitari, associazioni, media. Servono strumenti concreti, serve formare genitori e docenti a riconoscere i segnali di disagio, serve coinvolgere i ragazzi stessi e dare loro la possibilità di diventare parte di una rete di sostegno.
La storia di Paolo non deve restare un titolo di cronaca. È un appello che chiede a tutti noi di guardare oltre le statistiche e imparare a prenderci cura, ogni giorno, delle fragilità che attraversano le nostre comunità.
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