Ecco la lettera ricevuta da un compagno che narra di un picchetto a Malpensa e che desidero condividere con voi

Caro Andrea, ti mando qualche mia riflessione sulla giornata del 26 riguardo al picchetto che abbiamo tenuto presso l’aeroporto di Malpensa, non in forma di articolo giornalistico, di cui non sono capace e che non amo, ma di breve narrazione personale.

Alle 9 del mattino il picchetto si è già riunito presso l’ingresso 1 dell’aeroporto ed è abbastanza nutrito, sebbene conti poco più di 100 persone. L’atmosfera è lieta ma concentrata, consapevole, come accade sempre quando i compagni si incontrano in momenti di lotta e di liberazione.

Poco dopo ci dirigiamo in corteo verso l’ingresso della zona Cargo, oltre i cui cancelli si accede alla zona logistica e dove tir, autoarticolati e furgoni vanno e vengono. Ed è qui che si svolgerà per tutta la mattinata il presidio di blocco fino alle 15. La parola d’ordine è: nemmeno un chiodo entrerà e uscirà per Israele. Fanno eccezione i trasporti di medicinali e generi deperibili. A tale scopo alcuni compagni controllano le bolle di accompagnamento dei veicoli.

Purtroppo il tempo non è dei più clementi perché piove e fa piuttosto freddo, ma fino alla fine pochi saranno quelli che andranno via. Ci si ripara alla meglio sotto gli ombrelli, la pensilina del bus e un piccolo gazebo. La polizia intorno è molta, presente in tenuta antisommossa e con furgoni blindati; insieme a essa anche Carabinieri e Finanza, nemmeno fossimo un manipolo di guerriglia urbana anni ’70.

I compagni, i lavoratori invece, sono naturalmente disarmati ma determinati ad affrontare qualsiasi evenienza poco piacevole dovesse verificarsi, come una provocazione da parte delle forze dell’ordine o il tentativo di forzare il blocco da parte di qualche autista.

Le motivazioni umanitarie e politiche per la situazione a Gaza si sono sommate a quelle più strettamente rivendicative del sindacato di base USB e Cub, anzi sono diventate addirittura prioritarie per la generosità d’animo degli operai presenti, che hanno avuto più a cuore le condizioni dei Palestinesi che le proprie istanze lavorative.

Alla fine eravamo tutti stanchi, bagnati e infreddoliti, ma contenti di aver fatto la cosa giusta, anzi doppiamente contenti, perché lottare contro il genocidio dei Gazawi è lottare anche per la nostra stessa esistenza, in quanto il loro sterminio prefigurerebbe il nostro in futuro.

Caro Andrea, comprendo che probabilmente questo scritto risulta più una cronaca personale che un articolo giornalistico, ma come ho già scritto all’inizio, non amo, né sono capace di redarre un testo in forma giornalistica.
Un abbraccio.
Stefano Varese, No Tav