Proponiamo alcuni stralci del contributo di Maria Concetta Sala che sarà illustrato nel corso della Settimana Alfonsiana – Palermo, 25 settembre 2025 – dove sarà presentata l’opera I Vangeli. Marco Matteo Luca Giovanni (edizione, traduzione e commento di Giancarlo Gaeta, Quodlibet, 2024, 29°)
Dove scovare scintille di energia per non inabissarsi nel vortice della disperazione e quindi nel nichilismo in tempi di orrore segnati da una furia devastatrice che non lascia via di scampo ai popoli mendicanti destinati dai potenti boss capitalisti di turno alla nuda sopravvivenza? Di quali risorse simboliche ci si può avvalere per non lasciarsi invadere da quel terribile senso d’impotenza dinanzi ai colpi inferti ai più disgraziati e inermi degli esseri umani e ai viventi tutti e alle cose tutte, in un’epoca di inquinamento della mente e della natura ad opera di una manciata di proprietari delle gigantesche aziende tecnologiche? A quale senso della vita appellarsi per arrestare il processo di disintegrazione della coscienza in atto da tempo? Come non resistere alla cieca al dolore e all’insensatezza che attanagliano l’anima, bensì esercitarsi a patirli e trasformarli in fiducia creatrice di legami secondo un altro ordine di rapporti che faccia da contrappeso a quello fondato sulla forza del potere? Nonostante il clima di violenza e di esercizio della forza ormai fuori controllo si può dare ascolto e risposta al grido di dolore impersonale che si leva dal cuore di ogni vivente, da ogni ambiente umano, da ogni città, e al deturpamento di ogni ecosistema e perfino di ogni elemento del mondo fisico?
Le risorse ed energie che vadano in direzione contraria all’ordine esistente sono rinvenibili a mio parere là dove e quando infrangiamo le leggi naturali della necessità meccanica, sicché ciò che percepiamo, capiamo, agiamo apre nella mappa della singola esistenza passaggi impensabili ma tangibili all’agire compassionevole. Non mancano le guide che possano orientarci nella desolazione odierna: penso alle testimonianze poetiche di Etty Hillesum dal campo di smistamento di Westerbork, penso al desiderio di verità di Simone Weil, penso alle vicende di tantissime donne e uomini spesso anonimi che hanno lasciato scie luminose nel mondo, nella storia dell’umanità. Le loro vicende esistenziali racchiudono moti di compassione che si traducono nell’immediatezza del vivere in gesti di bene illogico, granelli di luce che continuano a splendere tra le rovine del passato e che nell’amarezza del presente rimbalzano quotidianamente da luoghi lontani o vicini, più o meno direttamente infestati da diavolerie tecnologiche produttrici di morte.
Si tratti di sollievo e conforto, di soccorso in mare o sulla terraferma, di apporto di beni di prima necessità, si tratti di cura indistinta del vivente e dell’inanimato, questi esempi imprevedibili e imponderabili di coraggio senza crudeltà orientati al bene scaturiscono dall’aspirazione alla giustizia e sottraggono spazio e potere alle ingiustizie. Ma quale giustizia? La giustizia definita non dai rapporti di forza dell’ordine sociale ma dagli obblighi nei confronti dei bisogni vitali dell’essere umano nella sua interezza, come insegna Simone Weil. Questa visione dell’umano sentire e dello stare al mondo non nega la presenza del male, ovvero l’esito della legge di gravità a cui sottostanno tutti i fenomeni inclusi quelli psicologici, ma non presuppone l’abbandono del mondo alla deriva e l’indifferenza nei confronti degli interrogativi che concernono le dinamiche dell’oppressione sociale e la loro analisi. Nello stesso tempo questa visione lascia spazio alla possibilità di ricezione dell’esigenza di bene proveniente dal cuore di ogni essere umano al di là della sua maggiore o minore intelligenza, al di là delle sue eventuali limitazioni fisiche, al di là della sua appartenenza al ceto medio o alla schiera dei diseredati, al di là di ogni sua supposta identità o etichetta.
Che cosa esattamente può trattenere la mia mano dal colpire un altro essere umano? si chiedeva nel 1943 Simone Weil che così rispondeva: «il fatto di sapere che se qualcuno gli cavasse gli occhi la sua anima sarebbe straziata dal pensiero che gli viene fatto del male», ovvero dalla percezione e dal pensiero di subire un’ingiustizia. Nel flebile strazio di ogni essere umano consonante con il grido di Cristo sulla Croce – Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? –, nell’universale aspettativa di bene che sorge dalla parte profonda del cuore, risiede il sacro perché solo «il bene e ciò che è relativo al bene è sacro». Consapevole che gran parte dei mali che stiamo vivendo hanno un legame stretto con l’espulsione di questa nozione di sacro dal nostro modo di sentire, pensare e vivere, provo a chinarmi sulle pagine dei Vangeli, che Simone Weil riteneva l’«ultima e meravigliosa espressione del genio greco», ovvero espressione del sentimento della miseria umana.
Mi sono accostata alla lettura dei Vangeli tradotti, annotati e commentati da Giancarlo Gaeta fin dall’edizione nei Millenni del 2006 e ho riletto il magistrale testo di apertura che porta in esergo un “pensiero” di Wittgenstein: «Il cristianesimo non si fonda su di una verità storica, bensì ci dà una notizia (storica), dicendo: adesso credi! Ma non dice: credi a questa notizia con la fiducia che spetta a una notizia storica, – bensì: credi, di là da ogni ostacolo, e questo tu lo puoi soltanto come risultato di una vita». In questo pensiero, che non compare nella nuova edizione pubblicata da Quodlibet nel 2024 di cui ci occupiamo, risiede a mio avviso la sostanza dell’impresa dello storico del cristianesimo antico, quale è Gaeta, che è quella di spronare noi lettrici e lettori odierni a fissare l’attenzione sull’evangelo di Gesù in quanto «annuncio di un avvenimento gioioso», di tornare a privilegiare l’evento primario prescindendo dalle interpretazioni successive, pur nella consapevolezza dei mutamenti apportati alla sua vicenda terrena fin dai seguaci della prima generazione. Leggere i Vangeli oggi presuppone nell’intento di Gaeta la possibilità di cogliere nel contesto del presente l’azione drammatica in cui Gesù fu coinvolto e che prefigurava una radicalità allora e ora non accomodante, giacché implicava e implica il rivolgimento della condizione umana.
La vicenda di Gesù si compie per tratti essenziali che ne evidenziano il destino di un essere incompreso, umiliato, dileggiato fino alla morte sulla croce come un criminale comune; nelle parole di Gaeta egli è disegnato come «una figura di profeta indisponibile a qualunque sorta di mediazione e di adattamento all’esistente, a qualunque forma di attesa che non fosse quella dell’avvento prossimo del regno» e ancora, senza mezzi termini, come «uno sradicato sociale: un senza patria, un senza famiglia, in definitiva un visionario privo di mezzi di sussistenza che poteva trovare riconoscimento soltanto presso quanti già vivevano in condizioni spregevoli: malati, invalidi, prostitute, esattori d’imposte, bisognosi e smarriti di ogni sorta. Tanto più che egli evita di riferire a sé in maniera univoca i ruoli che in quanto carismatico la società tendeva ad attribuirgli: rabbi, profeta, re, Messia».
Gaeta asserisce infatti che Gesù «ha agito in forza del convincimento assoluto di dare corso a un nuovo inizio […] che superava d’un tratto ogni rappresentazione mitico-sacrale di Dio, compresa quella ebraica e quella che le chiese cristiane avrebbero ristabilito. Non ha perciò ammesso alcuna mediazione; anche le sue parole, i suoi insegnamenti sono azioni, non hanno altro scopo che operare nel senso del mutamento. È questa una differenza essenziale che il rapido approdo alle concezioni cristologiche ha in gran parte oscurata, trasferendo il valore trasformativo della predicazione escatologica in una soteriologia destinata a togliere urgenza al mutamento del mondo, a favore esclusivo del mutamento interiore».
Soprattutto a partire dal II secolo emerge la preoccupazione dominante da parte dei discepoli di stemperare gli aspetti religiosamente e socialmente più radicali e conflittuali di Gesù spiritualizzandone la predicazione e quindi attenuando la spinta a uscire da una condizione di morte, da un mondo di morti e a optare a favore di una condizione di vita, di un mondo di vivi ri-creato. La «storia della salvezza», sottolinea Gaeta, consegue per l’appunto dall’affievolimento della coscienza escatologica, giacché «ciò a cui l’evento escatologico pone fine non è il mondo in quanto tale, ma il potere del demonio su di esso; più precisamente esso sottrae alla potente illusione che il mondo, cioè la totalità dei fatti che vi si producono incessantemente, abbia un senso. […] La fede evangelica nel Regno di Dio che irrompe nel mondo nell’ora presente ha precisamente l’effetto di dissolvere questa potente illusione… ».
Con l’irruzione nell’ora presente viene dunque meno l’illusione della linearità temporale, la concezione lineare della storia, che è «sempre espressione della volontà di dominio e pertanto generatrice di violenza. È sempre storia di vincitori che giustificano a posteriori la loro vittoria», afferma Gaeta, secondo il quale, e a ragione, la versione provvidenzialistica è ancora più grave di quella storicistica, perché presuppone un progetto di Dio sulla storia, che non può che includere l’uso della forza per collaborare con ogni mezzo umano alla sua realizzazione – la portata di questa sciagura è oggi sotto i nostri occhi in Palestina. Su questo Simone Weil è decisamente inflessibile imputando alla cristianità il mancato sviluppo della «nozione dell’assenza e della non-azione di Dio quaggiù», un mancato sviluppo che ha comportato il suo divenire totalitaria, conquistatrice e sterminatrice alla maniera dell’Antico Testamento, alla maniera dell’antico Israele, che prima dell’esilio pensava di aver ricevuto da Dio il comando di distruggere le città e sterminare tutti i suoi abitanti.
Tutte le opere di conquista sono infatti il risultato di un fanatismo idolatrico e di una volontà di potenza che s’impongono sulla scena del mondo causando sofferenze indicibili, morte, devastazione. Come affrontare allora l’insensatezza senza freni che sorregge l’impalcatura di ogni totalitarismo? Anzitutto districando l’imbroglio seducente dei falsi beni illusori quali in particolare il denaro, il prestigio di cui la guerra è la massima rappresentazione, la dismisura che privilegia la quantità alla qualità, la centralità del proprio io a discapito di tutti gli altri io, il desiderio di potere, che «come una botte forata che mai riesce a colmarsi, assorbe tutte le energie di coloro che si prefiggono di saziarlo» e fa di ogni altro essere umano «un mero ostacolo da eliminare» (Rita Fulco).
Certo, nelle circostanze attuali siamo tristi e angosciati, ma non si dà soluzione senza un lavoro su di sé, senza il lavoro di ritrovare la pace e ricomporre i frantumi in sé stessi – questo non coincide con il taglio delle relazioni e dei legami sociali ma con il ridestare la fiducia nell’umano e la gioia che ne scaturisce e mantenere lo sguardo lucido su ciò che accade. Se si assume questo orientamento ci si rende disponibili a un’esistenza votata all’incomprensione e al dileggio, e quasi sempre a forme persecutorie da parte delle istituzioni vigenti. In questo percorso tuttavia si può far tesoro dell’esperienza radicale di Gesù e della sua predicazione escatologica volta a un nuovo inizio, alla ri-creazione del mondo; si può altresì trarre energia dalle esperienze di quelle donne e quegli uomini che hanno ri-creato sé stesse/i in una relazione libera con qualcosa che possiamo chiamare spirito di giustizia, Dio o in altro modo – ad esempio Etty Hillesum dava questo nome alla parte più profonda e ricca di sé nella quale trovare riposo. Queste esperienze di vita alle quali richiamarsi hanno reso e rendono possibile un altro mondo in questo mondo (Wanda Tommasi), giacché la loro esemplarità consiste nel disancorarsi dal mondo e nello stesso tempo nel disinnescare i dispositivi sociali di potere all’opera nel mondo. Vale a dire nel non dissociare il mutamento interiore dal mutamento nel mondo.










