Oltre allo scenario “due popoli due Stati” che va per la maggiore ed è nella bocca anche degli ipocriti che si muovono intutt’altra direzione, e “due popoli un solo Stato”, per Israele e Palestina è possibile prendere in considerazione, perché no, in una situazione in cui qualsiasi via d’uscita appare estremamente problematica, anche lo scenario “due popoli nessuno Stato”.

Lo spunto è dato dallo storico e docente universitario di storia delle religioni ebreo statunitense Daniel Boyarin che nel suo libro “The No-State solution” del 2023 indica una terza suggestiva via. Una via che esclude la presenza di uno Stato nazionale per gli ebrei e che quindi è contrapposta alle tesi sioniste.

Per Boyarin i “confini” per la comunità ebraica non dovrebbero essere di tipo fisico, quindi non incardinati in uno Stato nazionale ma caso mai definiti dalla comune appartenenza religiosa al di là delle coordinate spaziali. L’accademico parte da considerazioni teologiche e filosofiche per contestare la tesi sionista secondo cui la patria per gli ebrei dovrebbe essere uno Stato. Insomma non uno Stato-Nazione con tutti i suoi corollari di violenza, esclusione e gerarchia ma una comunità spirituale basata su valori condivisi. Quindi identità ebraica e patria territoriale secondo lo studioso non dovrebbero coincidere. Anzi svolge anche una critica del nazionalismo mettendo in evidenza che spesso si tratta di una categoria destinata a emarginare le minoranze.

Come in effetti è avvenuto nel 2018, precisamente il 18 luglio di quell’anno, attraverso una legge approvata a stretta maggioranza alla Knesset che per la prima ha stabilito che Israele divenisse ufficialmente la “Casa del popolo ebraico”. Decisione nefasta e di rilevanza storica troppo poco ricordata perché da questo evento è nata una“basic law” aggiunta alle altre 11 leggi fondamentali di questo Stato senza costituzione.

Con essa l’ebraico è divenuto “lingua di stato” assumendo una supremazia nei confronti dell’arabo che fino a 7 anni fa aveva pari dignità. E’ stata chiaramente una legge discriminatoria contro cui ha protestato senza successo il 20% di popolazione arabo-israeliana. E l’ispiratore è sempre lui: quel Netanyahu che ha cercato così di anteporre l’ebraicità alla democraticità dello Stato, mentre fino al 2018 i due principi erano in un delicato equilibrio. Anzi 11 anni fa sempre lui aveva cercato di far passare una versione della legge ancora più reazionaria.

Si può affermare quindi che 5 anni prima del 7 ottobre Israele aveva fatto un passo decisivo verso l’etnocrazia.

Sulla riflessione filosofico-teologica di Boyarin si innesta a questo punto una riflessione degna di nota fatta da Gabriele Cammarata del mensile anarchico “Sicilia Libertaria” che scorge rilevanti connessioni tra le prospettive di Boyarin e il pensiero anarchico, in una saldatura con la visione politica della questione israelo-palestinese.

Lo scenario possibile potrebbe essere quello di comunità interdipendenti e cooperanti israeliane e palestinesi che convivano sullo stesso territorio attraverso il riconoscimento reciproco e la governance condivisa ma facendo a meno di strutture statali organizzate e formali.

Questo significherebbe chiaramente prescindere dagli apparati statali di Israele e dell’Autorità Nazionale Palestinese oltre ovviamente a escludere i fanatici aguzzini di Hamas. Uno scenario sicuramente desiderabile in cui l’unica stella polare sarebbe la convivenza pacifica e la cooperazione in un territorio svuotato di strutture di potere che opprimono la popolazione. Ma evidentemente un percorso costellato di ostacoli di ogni genere.

Qualcosa del genere era stato realizzato nel Rojava nel nord della Siria con un sistema confederale e decentrato basato su assemblee locali e consigli di quartiere ispirandosi al pensiero del filosofo statunitense Bookchin e di Abdullah Ocalan.