Racconto di un giorno dove ho incontrato la sconfitta dell’umanità. E mi ha insegnato tanto….

Sono arrivati in Italia per la più dolorosa delle situazioni: cure e interventi chirurgici urgenti e ripetuti per ferite alla testa e in altre parti del corpo su bambini piccolissimi. Sono oltre 300 le persone approdate da Gaza in Italia per ricevere assistenza medica d’urgenza. Tra loro, numerosi bambini palestinesi gravemente feriti o malati provenienti dalla Striscia di Gaza.

Da febbraio a marzo sono arrivati in Italia bambini oncologici o feriti da proiettili o da droni, diretti verso ospedali come l’Umberto I di Roma, il Meyer di Firenze e Niguarda di Milano: un’evacuazione sanitaria che costituisce una goccia nell’oceano di chi avrebbe bisogno di cure urgenti. A Gaza i bambini feriti muoiono per mancanza di antibiotici e per infezioni secondarie.

Sì, se ne parla, ma è stato un privilegio avere la possibilità di incontrarli e di creare una situazione di dialogo e di respiro, per sollevare, almeno parzialmente, tutto il dolore che è rimasto addosso. Qui a Milano, sono accolti e vivono la loro quotidianità in strutture che fanno ciò che possono, ma hanno una stanza e un bagno in comune, tre nuclei familiari diversi, nessun servizio o corso di italiano. Solo giornate vuote, in attesa delle chiamate in ospedale. Nemmeno un frigorifero per proteggere il biberon dal caldo afoso che irrancidisce il latte.

Varcare con loro l’iconica porta rossa dell’associazione Baia del Re, che ha organizzato una giornata di svago, è stato un privilegio. Abbiamo trascorso insieme momenti che le parole non riusciranno mai a descrivere.  Sono un nonno e un nipote, un padre e un bambino, una mamma e cinque bambini … La composizione di ogni nucleo dipende da chi è rimasto in vita dopo lo sterminio del resto della famiglia. Dignità, forza, parole e tanti balli e allegria, almeno per un giorno .  I loro nomi non è necessario scriverli, ma noi li conosciamo a memoria.

Uno di questi bambini ora ha un anno. È stato colpito da un drone israeliano mentre la madre lo allattava. Aveva nove giorni. Oggi ha tutti i capelli, che sono tornati a incorniciargli il viso e la madre, 39 anni, non lo abbandona mai con lo sguardo, mentre tenta di sgusciare in mezzo ai tavoli e tra le sedie. La più grande degli altri quattro fratelli è una ragazza di 14 anni che sente tutto il peso di essere diventata il punto di riferimento per una famiglia che pensa costantemente al padre. Lui è rimasto a Gaza. L’Idf , in quei pochi casi in cui permette la fuoriuscita dal territorio grazie a corridoi umanitari medici, consente comunque il viaggio solo a un adulto della famiglia. Il papà riesce a mandare notizie intermittenti, ed è affamato e lacerato dalla perdita di altri 17 membri della sua famiglia.

Lui non li vede, ma i suoi figli oggi giocano con carta colorata e pennarelli, per disegnare con insistenza i colori della bandiera palestinese. Poi su un foglio spuntano un orsacchiotto, una specie di Pokemon e un cuore spezzato. Ha delle lacrime sul viso.

Un piccolo descrive il suo disegno: «È triste», una delle poche parole italiane apprese per esprimere un trauma che non ha potuto cancellare.

Motaz, uno degli allievi della scuola di italiano, egiziano e oramai bilingue, traduce a raffica. Con lui c’è Fatima, la mediatrice culturale con doppia cittadinanza italiana e marocchina, una forza della natura. Il resto lo fanno alcune donne magrebine che sono corse a dare una mano non appena saputo dell’iniziativa.

L’esigenza di far sapere ciò che hanno vissuto a Gaza è dirompente, le dita scorrono su video inenarrabili, che non hanno bisogno di sottotitoli. Si mostra l’interno delle case dopo il bombardamento, il sangue, la disperazione, la corsa in ospedale con il bimbo sopravvissuto in braccio. Oggi questo bambino è qui con noi, ha subìto interventi chirurgici importanti e non vuole togliersi il cappellino mai, per paura di impressionare gli altri con i segni impietosi delle operazioni salvavita.  C’è poi un ragazzo di 14 anni, martoriato dal gomito in giù. Con la sua maglia a maniche lunghe, nonostante il caldo torrido, nasconde lesioni che evocano un «macello». Accanto a lui sta il nonno, custode del suo silenzio di dolore. Al dramma della perdita della mamma e di tutta la famiglia, si è aggiunta la provocazione beffarda di  un soldato israeliano: ” Non potrai giocare mai più”. Il sadismo inesplicabile del milite idiota per questo ragazzo è diventato una sfida: vuole salire su una bici e percorre su e giù il marciapiede. “Dovete filmarmi, devo avere questo video in cui pedalo e vado in bicicletta come prima!”

L’atmosfera, tuttavia, si trasforma: partendo da una colazione semplice, tra brioche e yogurt e poi musica, mani che si stringono, passi di danza tutti insieme. Donne della comunità marocchina corrono ad aiutare e la solidarietà diventa azione. Il resto lo fa la musica, che spinge tutti a ballare tenendosi per mano. La voglia di comunicare è dirompente.

A cuore aperto, si crea uno spazio di verità autentica. Qui, però, sono soprattutto gli attivisti italiani a tessere il filo storico della Palestina. I veri protagonisti, i sopravvissuti, scelgono la via della traduzione per articolare un messaggio nitido: emergono due capisaldi, incisi nella loro voce – la gratitudine e il ritorno a casa.

«Voi siete la nostra famiglia, avremo bisogno di sostegno in questo cammino italiano, ma soprattutto noi torneremo a Gaza e voi verrete con noi».

Non manifestano rabbia o recriminazioni: ci guardano con un’energia luminosa, ridono, resistono. Nessuna parola d’odio, nessuna lamentela. Solo una forza quieta, che incanta e avvolge tutto.

Tutti insieme, con voi. Ora sono qui, ma il pensiero è sempre a chi è rimasto. Ci salutano, ci abbracciamo, ma devono andare: partecipare alla manifestazione è importante e imprescindibile. «Abbiamo tutti, qui, dal più piccolo al più anziano, un trauma profondo, un dolore immenso», ammettono con schiettezza. Ma è questa promessa — ripetuta come un mantra — che diviene un faro di resilienza, un’imprescindibile bussola: noi torneremo a Gaza.