Un grande mal di testa per la fatica di ieri. Quando abbiamo raggiunto Milano per consegnare le firme raccolte nella marcia per Gaza, che da Oropa si è snodata sino a Milano. Insieme alla sensazione che sia possibile modificare la realtà, almeno un poco. Perlomeno ci si può provare. Mentre pedalavo pensavo alla felicità delle mie nipotine che ora sono al mare e tra brucomela e altalene trascorrono le vacanze giuste, quelle che ogni bambino dovrebbe avere per diritto naturale. Prima che la vita tolga loro i sogni e un futuro se non generoso, perlomeno umano. Quello che sulla Striscia di Gaza in migliaia di bambini non posseggono più da tempo. Da noi nell’Occidente ricco di possibilità, le notizie che giungono ogni mattina dell’Oriente durano una frazione di tempo. La sofferenza e la paura non passano attraverso gli altoparlanti della radio, non ci interpellano più di tanto, non lasciano righe di pennarello giallo sul cuore. I numeri non hanno emozioni, le statistiche sono fatte per i giornali, non per chi sente su di sé in profondità la disumanità di un mondo che corre veloce verso la barbarie nell’indifferenza generale.

Vito Mancuso è un teologo che seguo sempre con affetto. Oggi dice: “Sono convinto che, se c’è una cosa oggi più che mai necessaria, essa consiste nel riconoscere e custodire il concetto di umanità. Con umanità intendo un modo di essere in cui prevalgono il rispetto, l’onestà, la gentilezza, la fiducia, quell’aspirare ai valori più nobili che proviene dal sentire di avere tra noi tante cose in comune, chiamato dai rivoluzionari francesi fraternità. L’antica frase che dovremmo tutti portare nel cuore e ripetere quotidianamente imparandola a memoria è questa del commediografo latino Terenzio: «Sono un uomo: nulla di umano considero a me estraneo».

Prosegue Mancuso e dice: “E’ lecito coltivare la speranza che il concetto di umanità non muoia del tutto e che l’arco della società non vada definitivamente in frantumi? Fino a quando vi sono esseri umani che vi credono, sì, è lecito. E il dato di fatto è che vi sono ancora esseri umani che, chissà perché, si sentono chiamati in causa dalle condizioni fisiche e morali degli altri esseri umani e dicono a se stessi: «Sono un essere umano: non so rimanere indifferente agli altri. Sono fatto così: ho capito che tanto più io vivrò bene, quanto meno gli altri soffriranno». Questa medesima tensione etica ed emotiva è rispecchiata dalla cosiddetta regola d’oro, presente in tutte le tradizioni spirituali dell’umanità e che dichiara: “Non fare agli altri ciò che non vuoi che gli altri facciano a te”

Io prima non sapevo se anche questa visione dell’umano era nell’anima di chi aveva organizzato questo cammino, marcia, pellegrinaggio, processione e non ha alcuna importanza come può essere chiamato. Eppure stamattina rivedendo le facce e le fotografie della gente che ha attraversato le valli del biellese per giungere sino alla pianura, e poi infine nella grande metropoli lombarda, leggendo nei loro occhi la voglia di tracciare un segno, mi sono convinto che era proprio questa la forza che li aveva trascinati lungo i sentieri e poi le strade e infine gli ingorghi milanesi. Per consegnare un plico che non avrà seguito, ma che rimarrà presidio e testimonianza di un gesto di affetto verso il futuro. Un abbraccio verso un popolo lontano, una mano tesa per i cuccioli d’uomo ai quali la guerra ha impedito di vivere l’età migliore della vita: per questo ha camminato con fatica e speranza sotto il sole rovente che non fa sconti, con determinazione per così tanta strada.

Nel gruppo c’era anche un insegnante di scuola. Gli ho raccontato della maestra di Mortara, che nel 1992 era andata a fare interposizione pacifica con i 500 matti di Don Tonino Bello nella Jugoslavia in fiamme, nella barbarie di Sarajevo. Ci era andata discutendo con i suoi bambini di scuola elementare sul significato del gesto. E di quella volta che in un incontro pubblico una bambina della sua classe, alla fine di un dibattito si era alzata in piedi e aveva con sicurezza e tra lo sguardo stupito dei presenti affermato: “La mia maestra è andata là per far finire la guerra” . A volte i gesti, i simboli hanno un significato eccedente rispetto alla realtà, e non è detto che i semi sotterranei non possano fiorire all’improvviso e che la Storia abbia accelerazioni sconosciute verso quel “destino comune” che ha il sapore dell’umanità, che così bene oggi racconta Mancuso.

Da questo punto di vista la marcia per Gaza ha lasciato un segno prezioso.

di Adriano Arlenghi