Due settimane fa un’amica mi ha proposto di mandare un testo per un’iniziativa che si svolgerà a Berzano, nell’astigiano: una lettura di brevi testi poetici che tocchino il tema de “la tragedia e la libertà”. Mi invita a scrivere su Peltier. Quando, dopo diversi tentativi, mi accingo ancora una volta a scrivere, non ci riesco: Peltier è fuori dal carcere, Gaza invece, urla. Così cambio tema e scrivo quello che segue, che verrà letto quel giorno al Festival, che si terrà tra il 10 e il 27 luglio.
Basiti di fronte alla morte sparsa come si spargono i semi a terra per far crescere la vita.
Tre minuti di silenzio, quello che desidera un popolo intero attorniato da rumori di droni, aerei, bombe, spari.
Noi sentiamo da lontano, immaginiamo.
La tragedia sui social ci permea tutto attorno.
L’insostenibilità di immagini che squadernano la violenza, la sofferenza, la distruzione, il dolore, la rabbia e la morte.
Uomini e donne con piccoli in braccio, corpi con un filo di vita o che hanno perso anche quel filo.
Corpi a terra in mezzo a gente che corre, come impazzita.
Rumore di sirene, di ambulanze, quelle poche rimaste. Corse verso ospedali semidistrutti.
Chi puo’ donare il sangue? Forse una madre o un padre.
Ma molti si sono persi.
Rimbalzare da una zona all’altra di un rettangolo infernale, 40 chilometri lungo i quali cercare di nascondersi tra macerie. Seguire le indicazioni? Fare come sugli Appennini quando si andava, richiamati, nelle piazze o nelle chiese? Per poi essere massacrati.
Continuare a cercare persone amate. Avere negli occhi i propri cari, morti, forse sotto le macerie, neppure sepolti.
Qualcuno disse a suo tempo: si puo’ ancora fare filosofia dopo Auschwitz? Riprendemmo a farla, sommaria, stentata, scipita.
Che torni il silenzio ora. Che si taccia tutti, ma in primis aerei e bombe.
Che si raccolgano i feriti, che si curino le ferite del corpo e dell’anima.
Che si accarezzino i corpi segnati da mesi di sofferenza.
Che si cucini per loro un pasto buono e leggero che li faccia riprendere, che si apra l’acqua su una doccia che porti via le lacrime, che tolga polvere da tutto il corpo, da dentro gli occhi, da dentro il naso. Che si lavino i capelli, che si unga una pelle spossata, che si indossi un vestito fresco, pulito, stirato e profumato.
Che si imbandisca una tavolata, con i cibi più amati, che si portino bevande fresche, quelle da tempo dimenticate, che si assapori quel che resta della vita, con gli occhi chiusi con la voglia di riaprirli tra case, parchi e voci di bambini che giocano.
Questa è stata la tragedia, dove molti hanno assistito come sulle gradinate di un’arena dell’antica Roma.
Dove la stragrande maggioranza ha girato la testa, ignorando da fuori le grida dagli spalti, le urla dal centro sabbioso, ma con la musica nelle cuffie sulle loro orecchie.
E poi noi, a balbettare qualcosa, a sfilare, a correre, agitandoci da una piazza all’altra, alternando grida a silenzio, cercando di bagnare le labbra ad assetati, schiacciati da un dolore al petto, a contarci, a guardarci negli occhi, a cercare risposte senza trovare un senso.
50 anni fa alcuni “maestri presuntuosi” dicevano: “Colpirne uno per educarne cento”. Oggi sono dei governi che dicono: “Colpire qualche milione, per educare qualche miliardo”.
Dov’è la libertà?
Il programma completo del festival è ora online su www.quadila.com
P.S. Ne approfitto, a proposito di Palestina e di poesia, per ricordarvi che continua l’iniziativa di piazza Duomo a Milano: ogni giorno dalle 18.30 alle 19.30 siamo in piedi, fermi, con, al collo, versi di poeti, in gran parte palestinesi. Chi può, lo aspettiamo.










