Si può davvero ‘insegnare’ la pace e la nonviolenza? Riflessioni tra scuole in fermento, tentativi coraggiosi e il bisogno urgente di comunità.

La scuola si avvia alla chiusura dei battenti — quelli fisici, almeno, ma il disagio, la solitudine e la sofferenza di bambine, bambini, ragazzi e ragazze non vanno in vacanza. Nemmeno i femminicidi e le guerre che insanguinano il mondo, come il genocidio in corso a Gaza. Fenomeni che possono sembrare lontani, ma che interpellano profondamente il lavoro educativo. Spesso dimentichiamo di attivare uno sguardo sistemico, di riconoscere l’interconnessione tra ciò che accade fuori e ciò che accade dentro: dentro di noi, dentro la famiglia, dentro la scuola, e viceversa. Dimentichiamo che ogni cosa è interconnessa, come la filosofia Ubuntu sudafricana ha capito da un pezzo… Noi facciamo ancora fatica. Provo qui a condividere qualche riflessione, maturate nel dibattito di alcune scuole che si interrogano su questi temi e dove ho avuto la fortuna di essere presente in questi giorni.

Spesso predichiamo pace e razzoliamo guerra

La guerra è competizione, punizione, scontro, logica di vincitori e vinti. Quante di queste dinamiche sono presenti nelle agenzie educative? La scuola è ancora prigioniera di un modello che premia l’obbedienza e la performance, più che l’ascolto e la collaborazione. Un modello con radici antiche – gentiliane, patriarcali, clericali e oggi ben concimate dal neoliberismo.

Possiamo davvero educare alla pace e alla nonviolenza se il sistema non la pratica? Senza chiederci come si costruisce equità nei rapporti quotidiani, nelle dinamiche scolastiche, nei contesti di insegnamento? Possiamo promuovere libertà e cooperazione se partiamo da un’organizzazione che premia il controllo? Senza rivedere il nostro modo di valutare, organizzare, comunicare?

Sembrano domande retoriche, eppure ogni giorno ci muoviamo dentro questa contraddizione educativa, senza riuscire a scioglierla.

“Educare a” o “educare con”?

Forse è il momento di iniziare a praticare attraverso un’educazione concretamente nonviolenta, che non è solo assenza di botte, urla o insulti. È la presenza attiva di relazioni significative, ascolto profondo, scelte condivise. Bambinǝ e ragazzǝ non hanno bisogno di discorsi: hanno bisogno di sentire sulla pelle la nonviolenza, di sperimentare ogni giorno la forza del legame comunitario, la pratica della partecipazione, l’affetto, l’equità, l’interdipendenza degli esseri umani. La nonviolenza è una grammatica relazionale e una pratica che va scelta, appresa, allenata, abitata, non solo attraverso il linguaggio, ma con i gesti quotidiani. D’accordo, ma come si fa?

Il ruolo scomodo (e necessario) degli adulti

Insegnanti, educatrici, educatori, genitori: che ruolo abbiamo in tutto questo? Come si fa ad accompagnare senza imporre, ad ascoltare senza sparire, a esserci senza controllare? Abbiamo una formazione che ci prepara a questo? Una bussola? Un luogo dove confrontarci? Strumenti adatti?

La pace e la nonviolenza sono pratiche possibili, ma prima dobbiamo imparare a riconoscere la violenza sistemica  — quella che non si vede, ma attraversa i modelli relazionali, le gerarchie, il linguaggio quotidiano, la struttura stessa della scuola e della società. Siamo capaci di individuarla e poi superarla?

Come diceva Danilo Dolci, la violenza più pericolosa è quella che non si vede: quella che si annida nelle relazioni di potere, nella negazione dell’ascolto, nella mortificazione del desiderio.

Se la scuola vuole diventare spazio di pace, giustizia e libertà, ha bisogno anche di adulti capaci di incarnare questi valori nelle relazioni quotidiane. E questo richiede una vera alfabetizzazione relazionale: la capacità di ascoltare profondamente, di stare nella complessità del conflitto senza annientarlo, di trasformare ogni relazione educativa in un’occasione di crescita condivisa.

Ma chi si prende cura di chi educa?

Forse abbiamo bisogno di spazi dove anche noi adulti possiamo sentirci meno soli, dove prenderci cura gli uni degli altri, dove organizzarci per far crescere insieme la dimensione nonviolenta.

Forse è anche arrivato il momento di disobbedire. In un tempo segnato da solitudini, competizione e isolamento, proprio la scuola può e deve diventare un’alleanza contro la paura. Un presidio per superare la sofferenza. Un luogo dove la felicità condivisa sia un orizzonte credibile. Ma dobbiamo costruirla dal basso, perché “dall’alto” — diciamocelo — non c’è (e forse non c’è mai stata) alcuna scelta politica in questa direzione. Almeno in Italia.

E qualcosa si muove, diversi tentativi che fermentano controvento. Esperienze come la rete di scuole EDUMANA o la Scuola Sconfinata, mostrano che altri orizzonti sono possibili, concreti, vivi. E molte altre scintille si espandono: piccoli gruppi di docenti che si cercano per trovare aiuto reciproco, comunità di pratiche che si attivano, scuole che si aprono alle sperimentazioni: mi sembrano tutte espressioni della grande capacità umana di dare risposte a ciò che fa soffrire, a ‘cercare un senso anche quando un senso non ce l’ha…’. Ho fiducia.

Chiudo queste brevi riflessioni con una frase di Federico, 12 anni, riportata nel libro Scuola Sconfinata, che mi pare chiarisca meglio di tante parole:

Volevo dire un’ultima frase finale visto che non si fa che parlare di suicidi, di persone che per colpa di insulti magari si suicidanoIo oggi sono stato veramente ma veramente felice, perché ho sentito tante persone che raccontavano la loro motivazione a essere felici. È stata una fortuna per me, cioè una fortuna per tutti! È stata una fortuna che abbiamo una motivazione per cui essere felici e quindi per cui vivere.” (Istantanee di felicità, in Scuola Sconfinata, Fondazione G. Feltrinelli 2021)

Ecco. Questa potrebbero essere la scuola e l’educazione. Non vi pare?