Sicuramente dal dopoguerra ad oggi gli italiani si sono indaffarati parecchio a generare bruttezza: dall’urbanizzazione selvaggia alla speculazione edilizia, dal dissesto idrogeologico (causato per trattamento inadeguato di fiumi e corsi d’acqua) all’inquinamento ambientale; dalla cementificazione delle coste al degrado dei monumenti storici (per mancanza di manutenzione), dall’agricoltura intensiva allo sfruttamento turistico insostenibile, dall’abbandono delle aree rurali ai cambiamenti climatici generati da inadeguate politiche di mitigazione e adattamento.
Quanto di bello ci è rimasto e mi riferisco al nostro patrimonio storico monumentale e paesaggistico è sicuramente una rendita proveniente del passato di cui spesso non ci prendiamo cura come dovremmo. In questo processo un ruolo importante di vigilanza e controllo è stato assunto negli ultimi 70 anni dalle Soprintendenze: la loro presenza ha impedito infatti che la voracità dei processi su elencati divorasse completamente il nostro Paese.
Ma che cosa sono le Sovrintendenze? Le Soprintendenze sono enti statali che operano sotto il Ministero della Cultura e secondo il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio (D.lgs. 42/2004) hanno un ruolo attivo nella tutela del Paesaggio. Ricordiamo che il Paesaggio è tutelato dall’Art.9.
L’Art. 9 è uno dei principi fondamentali della Costituzione: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
La protezione del paesaggio è intesa dunque come una responsabilità imprescindibile dello Stato: le istituzioni hanno il dovere di adottare misure per conservare e valorizzare l’ambiente naturale e il patrimonio storico e preservarli per le generazioni future. Il paesaggio non è infatti solo un elemento fisico ma è parte integrante dell’identità culturale e storica di un paese. Proteggere il paesaggio significa anche preservare la storia, la memoria e le tradizioni locali.
In una situazione di fragilità ambientale e sociale così preoccupante come quella che viviamo in cui è urgente intervenire rafforzando proprio i meccanismi di tutela con una visione rivolta al futuro e all’eredità che stiamo lasciando, compare la proposta di un disegno di legge che risulta vergognosamente incostituzionale violando proprio l’art. 9. e che trasforma il Paesaggio in un bene di consumo a breve termine.
Il DDL 1372, presentato al Senato, mira infatti a limitare il potere vincolante delle Soprintendenze italiane, trasferendo maggiore autonomia decisionale ai Comuni in materia di interventi edilizi e urbanistici. È tuttavia opportuno a tal proposito sottolineare che, attualmente, la tutela in materia di paesaggio è affidata all’attività concorrente di Stato e Regioni: infatti queste ultime (che nella maggior parte dei casi hanno delegato la loro competenza ai Comuni o alle Province), hanno il compito di rilasciare l’autorizzazione paesaggistica sulla base di un parere obbligatorio e vincolante della Soprintendenza. Quest’ultima, quindi, ha un ruolo prettamente tecnico, esprimendosi sulla compatibilità paesaggistica dell’intervento, a seguito di un’istruttoria (essenzialmente basata sulla procedibilità dell’istanza) effettuata dall’Ente delegato. È pertanto evidente la distinzione che attualmente caratterizza il ruolo di entrambi gli Enti legittimati a esprimersi nell’ambito delle procedure di tutela del paesaggio, con la Soprintendenza che, nel merito, ha il compito – propriamente tecnico – di valutare l’effettiva coerenza dell’intervento proposto rispetto ai valori paesaggistici di un determinato contesto.
In tale quadro operativo, il DDL si pone con l’obiettivo perlomeno dichiarato di voler semplificare le procedure autorizzative e ridurre la burocrazia, consentendo una gestione più efficiente delle pratiche quotidiane. Ricordiamo tuttavia che per rilasciare i pareri le soprintendenze hanno un termine massimo di 60 giorni che in alcuni casi è ridotto a 30. Termini sempre rispettati e spesso anticipati. Cosa si pensa di velocizzare dunque e snellire di preciso? L’assurdità è invece che Il disegno di legge propone di rendere il parere delle Soprintendenze obbligatorio ma non più vincolante per una serie di interventi, tra cui:
- Autorizzazioni paesaggistiche (art. 146 del Codice dei Beni Culturali)
- Interventi infrastrutturali in prossimità di beni paesaggistici (art. 152)
- Autorizzazioni per cartellonistica pubblicitaria in aree di valore ambientale e storico (art. 153)
- Colore delle facciate su edifici situati in centri storici o zone tutelate (art. 154)
- Compatibilità paesaggistica e sanzioni per difformità rispetto ai vincoli paesaggistici (art. 167 e 181)
Non ci vuole molta immaginazione per intuire la ricaduta disastrosa e l’impatto devastante sulle nostre città, se questo accadesse. Ancor più preoccupante appare il destino di tutte quelle regioni attualmente prive di Piano paesaggistico. Ad oggi, infatti, non tutte le regioni risultano dotate di piano paesaggistico, così come non tutti i vincoli paesaggistici risultano corredati delle necessarie prescrizioni, ovvero di tutte quelle “regole” fondamentali per garantire la permanenza di quei valori eccezionali riconosciuti ai territori “di notevole interesse pubblico”.
In tale complesso panorama nazionale, la tutela del paesaggio (nella sua interezza) manifesta una condizione di estrema fragilità, ad oggi contrastata dall’azione costante, imparziale e qualificata delle Soprintendenze, quali organi periferici rappresentativi dello Stato anche nei luoghi più complessi e problematici. Tale azione si rivela in tutta la sua urgenza e necessità, tra l’altro, in quei contesti riconosciuti quali luoghi a rischio già negli anni Ottanta, ovvero nelle aree sottoposte a tutela ex lege già con la L. 431 del 1985, poi confluite nell’art. 142 del D. Lgs. 42/2004 e s.m.i.: si tratta di ambiti ritenuti meritevoli di salvaguardia a prescindere da un riconosciuto valore estetico: aree costiere, territori montani al di sopra di una certa quota, territori contermini a laghi e corsi d’acqua, foreste e boschi, ghiacciai ecc. Tutti luoghi da tutelare esclusivamente per la loro appartenenza ad una determinata categoria, in assenza di Decreto di vincolo esplicito.
La pericolosità di questa proposta è che rendere non vincolante il parere delle Soprintendenze significa indebolire un meccanismo di tutela pubblica su beni paesaggistici e culturali poiché Le Soprintendenze sono organi tecnici statali con competenza specifica sulla tutela del patrimonio culturale e i funzionari sono altamente qualificati e con un’istruzione specialistica. Se il loro parere diventasse solo consultivo, i comuni potrebbero approvare interventi in contrasto con il parere tecnico-specialistico, potenzialmente mettendo a rischio beni tutelati isolando sempre più il monumento dal contesto in cui si inserisce. Questo aprirebbe la porta a una gestione più politica e meno tecnica della tutela che viola il dovere costituzionale. Piuttosto che uno snellimento volto a riqualificare il territorio sembrerebbe una sorta di “liberi tutti!“: un processo di speculazione che darebbe via ad un incondizionato ulteriore sfruttamento del territorio prediligendo gli interessi locali e bypassando quello che di fatto è invece un organo di controllo superpartes.
Un’operazione di smantellamento incosciente e spregiudicata di una delle norme di tutela del patrimonio culturale e del paesaggio tra le più strutturate, complesse ed efficaci al mondo. Nonostante il ritiro dell’emendamento al Decreto Cultura, la Lega intende ripresentare la proposta attraverso un disegno di legge separato. Secondo Gianangelo Bof, primo firmatario dell’emendamento, l’obiettivo è “sburocratizzare e velocizzare le pratiche edilizie”, evitando lungaggini che spesso paralizzano progetti di sviluppo e riqualificazione urbana. Quale progetto che ignora il paesaggio e il nostro patrimonio potrebbe avere un valore di sviluppo e riqualificazione urbana?
In un contesto in cui le lacerazioni e le ferite del territorio sono profonde sarebbe saggio utilizzare una metafora e dare un nuovo significato al termine “rammendare”. Il termine “rammendare”, nel suo significato originario, indica l’azione di riparare un tessuto lacerato, cucendolo con attenzione ma può diventare una potente metafora della “cura” — della ricostruzione di relazioni, luoghi, comunità e ambienti feriti. “Rammendare” non è dunque solo riparare, ma prendersi cura: delle persone, della memoria, delle relazioni. È un atto lento, paziente, silenzioso — e proprio per questo, profondamente trasformativo. Questo è l’atteggiamento che il Governo, le istituzioni e i disegni di legge dovrebbero avere rispetto al nostro Paesaggio e invece non solo si continuano a “tagliare i fili” ma si tenta di “scucire” anche quel poco che è rimasto.










