“Mai indifferenti. Voci ebraiche per la pace. Parole e oltre”: questo il titolo dell’incontro pubblico che si è tenuto alla Casa della Cultura di Milano il 14 aprile, promosso da chi ha elaborato l’appello “Maiindifferenti. Voci ebraiche per la pace” per sviscerare alcune tematiche dirimenti e non rimandabili di fronte alla situazione sempre più drammatica in cui sta precipitando Gaza, con Cisgiordania e Israele, coinvolgendo ormai direttamente l’intera regione mediorientale e indirettamente le società occidentali.

Nell’appello si legge: “Non siamo un gruppo che parla con una voce sola”, volendo così evidenziare il comune intento di distinguersi dall’apparente compattezza della Comunità ebraica italiana, affermare la ricchezza delle diversità nel confronto costruttivo rifuggendo dall’uso semplificato di alcuni termini a volte impugnati come armi. E l’appello conclude: “Nel contesto di un difficile dibattito pubblico, a volte impossibile, sentiamo l’esigenza di non fermarci sulla soglia delle parole, ma di cercare di analizzarle…” per spezzare il linguaggio dilagante di odio, guerra e disumanizzazione.

L’incontro ha visto quattro tempi distinti: 1) l’apertura, 2) l’analisi politica della situazione ad oggi, 3) la condizione dei minori in tempo di guerra, 4) il significato di “genocidio” nell’accezione giuridica corrente.

L’apertura

A cura di tre delle promotrici originarie dell’appello: Jardena Tedeschi, Renata Sarfati ed Eva Schwarzwald. Jardena Tedeschi ha letto la scaletta degli interventi successivi. Quello in video di Edith Bruck, intervistata da Gad Lerner, avrebbe svolto funzione di link fra il primo e il secondo tempo.

L’apertura ha rivestito una particolare importanza perché ha improntato di sé tutto l’incontro. Infatti nelle intenzioni delle promotrici è stata forte fin dall’inizio l’esigenza di comunicare il dolore e lo sconcerto per il precipitare degli eventi e di trovare un linguaggio che tenga conto dell’esperienza esistenziale e culturale dell’altro; un terreno comune.

In particolare Jardena Tedeschi ha espresso il proprio disagio di fronte alla ricorrenza del Giorno della Memoria. Il ricordo della Shoà dovrebbe servire di monito alle generazioni perché non si ripetano simili orrori e qui mi permetto di sottolineare la parola “simili”, non “uguali”, perché niente si ripete in modo uguale. Jardena cita un grande maestro dell’ebraismo, rabbi Hillel, che ha coniato la definizione più semplice di ebraismo: “Non fare agli altri quello che non è buono per te; tutto il resto è commento”. Ha inoltre evidenziato come abbia provato un senso d’isolamento di fronte all’uso “allusivo” del termine genocidio e “accusatorio” di sionismo nell’accezione fatta propria dallo Stato d’Israele: per lei è un’offesa alle sue radici ebraiche, comuniste e sioniste.

Renata Sarfati ha raccontato la genesi dell’appello “Mai indifferenti”, quando Joan Haim ne ha proposto la stesura, da rivolgere al mondo ebraico e non. Sottolinea che non si possono brandire, a uso strumentale di schieramenti contrapposti, parole gonfie di sangue e lacrime quali antisemitismo, genocidio, sionismo, terrorismo, alimentando così un conflitto senza soluzione. L’appello è sembrato anche un modo per affiancare chi in Israele si batte per una pace giusta e la convivenza con uno Stato palestinese: è una minoranza, ma un punto di partenza da cui ricominciare.

Eva infine ha raccontato che questi eventi terribili le hanno suscitato una crisi che ha fatto vacillare il suo equilibrio. In un momento in cui il fascismo ritorna, e non è più possibile parlare agli amici con cui non si è d’accordo, si è persa per strada la ricchezza dell’etica ebraica, il suo patrimonio culturale, la sua ricerca di verità e giustizia. Di fronte alla richiesta di Noemi Di Segni, la presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, di rettificare edulcorandola una parte dell’appello, ha riaffermato che la critica è necessaria e certo non per questo si sente antisemita.

È seguita la proiezione della videointervista a Edith Bruck, una delle poche persone sopravvissute alla Shoà ancora in vita. Nel colloquio con Gad Lerner ha espresso la sua ferma disapprovazione verso le scelte di Netanyahu che danneggiano, oltretutto, Israele e l’ebraismo alimentando l’antisemitismo. Si addolora nel constatare che, ancora, la colpa di un unico ebreo si riversa a cascata su tutti gli altri e respinge con fermezza l’espressione “voi ebrei” con cui spesso ci si rivolge al singolo individuo.

Dopo la proiezione Gad Lerner ci ha fatto notare che le Comunità ebraiche, in particolare quella italiana, seguono la stessa logica: per le voci ebraiche discordanti l’accusa è di tradimento, per quelle non ebraiche è, classicamente, di antisemitismo. Al contrario, per quanto riguarda l’appello, di particolare importanza è aver accettato la mediazione aprendo un dibattito pubblico per coinvolgere non solo il mondo ebraico, ma anche e soprattutto coloro con cui è più difficile dialogare, ossia i palestinesi e i giovani che li sostengono. È ineludibile la necessità di rompere gli steccati costruendo occasioni di confronto.

L’analisi politica della situazione ad oggi 

A cura di Gad Lerner e Stefano Levi Della Torre. Secondo entrambi in Israele si è prodotta una spaccatura sia sulla conduzione della guerra e della trattativa per salvare gli ostaggi sia, ancor prima dell’attacco di Hamas, sulla riforma giuridica che Netanyahu aveva cercato d’imporre al Paese. Inoltre, considerano la scelta di attaccare una sede diplomatica iraniana a Damasco, avvenuta proprio quella notte, una mossa calcolata di Netanyahu per costringere gli alleati occidentali ad allinearsi con il suo governo pur disapprovandone le politiche stragiste. E, alla luce dei rinnovati aiuti finanziari statunitensi, pare che purtroppo sia stata una mossa vincente.

Lerner ha raccontato di aver partecipato a una bella iniziativa a Venezia con due rappresentanti – uno ebreo israeliano, l’altro palestinese, Rami e Bassam – del Parent’s Circle. Mentre qui si tratta di persone accomunate dal dolore per aver perso entrambe una figlia, perciò aperte al dialogo e alla comprensione reciproca, Stefano Levi ha evidenziato invece quale logica inquietante sia sottesa all’agire del governo Netanyahu, e di Hamas, che chiama di “antagonismo collusivo”, riprendendo la definizione di Amos Oz, dove la contrapposizione è netta e la soluzione è collusivamente esclusa a priori.

Tuttavia, secondo lo studioso, con gli accordi di Abramo si potrebbe intravedere uno spiraglio poiché con la riconversione del loro sistema economico-industriale, inevitabile per aprirsi all’Occidente, i Paesi arabi dovranno affrontare la questione-Palestina, per operare in una situazione di equilibrio irraggiungibile se in Medioriente lasciassero diffondere, come una metastasi, la questione palestinese irrisolta. Se con lo sterminio e l’espulsione si avrebbe la regionalizzazione della guerra, con il raggiungimento di un’intesa si otterrebbe la regionalizzazione del processo di pace.

La condizione dei minori in tempo di guerra

A cura di Silvia Vegetti Finzi. La nota psicologa clinica ha analizzato la questione del trauma di guerra durante l’infanzia e l’adolescenza, che non colpisce solo quando se ne viene direttamente coinvolti. Pertanto la psicologa offre indicazioni agli adulti su come affrontare qui i residui traumatici importanti che lascerà questa crisi. Ai bambini della materna, che non riescono a verbalizzare, occorre sentire la presenza della barriera protettiva, fisica, degli adulti per non cadere in un baratro senza fine: hanno bisogno di sicurezza. Ai bambini in età scolare occorre sapere il perché di certi eventi, e conoscere i luoghi in cui si svolgono, per capire che li riguardano ma non nel loro quotidiano immediato; hanno bisogno di fiducia. Agli adolescenti, infine, occorre acquisire valori, responsabilità, autonomia per orientarsi nella vita; quindi, occorre speranza. Perciò, ha concluso, i nostri sforzi tesi alla pace sono un dono alle generazioni che ci seguiranno.

Il significato di “genocidio” nell’accezione giuridica corrente

A cura di Federico Sinicato e David Calef. L’avvocato penalista Federico Sinicato, impegnato nella difesa dei diritti fondamentali e della Costituzione, è promotore dell’Osservatorio per la legalità e ha partecipato al dibattito pubblico scientifico sulle riforme istituzionali. David Calef ha collaborato e collabora con varie Ong un po’ in tutto il mondo.

L’intervento di Sinicato ha riguardato la definizione di genocidio. A identificarla come parola che può descrivere meglio i contorni di alcuni crimini di massa fu, nel ’44, un magistrato ebreo polacco, Raphael Lemkin. Solo nel ’48 però ne precisò i contorni la Convenzione Onu per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Molto importante mi è sembrata la distinzione fra crimine di genocidio e crimini contro l’umanità. Sono definiti da atti molto simili, se non uguali; il primo tuttavia differisce dal secondo perché gli atti criminosi sono commessi con l’intenzione di distruggere del tutto o in parte un gruppo come tale.

Nel ’98 venne istituita la Corte Penale Internazionale[1] , che affrontò la questione del genocidio in due casi molto noti, il Ruanda e la Bosnia. Mentre nel primo il Tribunale non emise la sentenza perché il Paese aveva ritirato la firma dalla Convenzione, in quello della Bosnia si trovano elementi utili per un confronto fra quanto successe a Srebrenica e gli eventi in corso a Gaza; viene inoltre illustrata bene la differenza fra crimine contro l’umanità e crimine di genocidio. Per quanto riguardò le zone limitrofe della città su cui si riversò la violenza serba, l’imputazione fu del primo tipo, mentre per gli eventi di Srebrenica fu del secondo. Venne infatti individuata l’intenzionalità dei serbi d’impedire la continuazione generazionale del gruppo, uccidendone tutti i maschi di età compresa fra i 17 e i 45 anni. Inoltre il Tribunale era entrato in possesso di documenti serbi da cui emergeva chiaramente la programmazione dello sterminio e la capacità di realizzarlo.

Secondo il giurista, anche nel caso di Gaza sussistono varie circostanze a suffragare l’intenzionalità di sterminio e le condotte contro il popolo di Gaza sembrano dirette in modo non equivoco verso quel reato. David Calef si è concentrato sul ricorso presentato dal Sudafrica contro Israele per violazione della Convenzione Onu sul genocidio. Nel lungo ricorso sudafricano si possono individuare due elementi distinti: quello oggettivo, gli atti che configurano il crimine di genocidio, e quello soggettivo che ne configura l’intenzionalità, più arduo da provare. Malgrado alcuni elementi abbiano particolare rilevanza fra quelli segnalati, e le moltissime dichiarazioni di vari esponenti del governo israeliano che incitano all’annientamento di Gaza, per Calef è molto difficile dimostrare che esista una corrispondenza di causa-effetto fra le affermazioni e il loro impatto sul campo. Al di là di quanto dichiarerà la Corte, una cosa è certa: Israele ha reso Gaza un luogo inabitabile distruggendo tutto ciò che permetterebbe a una comunità di viverci. Calef ha concluso citando un passo dell’appello di Maiindifferenti: nella Striscia sono stati commessi tali e tanti crimini che comunque li si voglia chiamare, la loro definizione più o meno corretta niente toglie alla loro efferatezza.

Terminati gli interventi dei relatori, il pubblico è stato invitato, anche via Zoom, a porre domande o fare osservazioni. Sono stati ribaditi gli apprezzamenti all’appello, aprendo la strada a un dibattito che prima sembrava impossibile. È emersa ripetutamente la riconoscenza di chi ha sentito finalmente una sponda intorno a sé, sia qui sia in Israele, unita all’esigenza di “fare rete” con i vari gruppi – italiani e non – impegnati in una politica di pace contro il pensiero guerrafondaio che si sta affermando fra le leadership a livello nazionale e mondiale e alla necessità di confrontarsi con i palestinesi che vivono in Italia invitandoli a far parte della rete.

Per concludere, vorrei citare l’intervento su nostro invito di Dijana Pavlovic, attrice rom di origine serba, cui abbiamo chiesto di leggere questo breve brano di Mahmoud Darwish:

Siamo così piccoli, bistrattati, come due Giuseppe che odiano i loro stessi fratelli. L’ideologia dello Stato e delle carte d’identità è ciò che ha creato il conflitto.

Siamo dei popoli nati per essere soggetti poetici. Giunti al gioco politico, abbiamo cominciato a litigare. Quando faremo pace, rideremo di tutto questo, ma fino ad allora c’è una questione che mi preoccupa: noi, siamo veramente noi?”.

[1] Si distingue dalla Corte internazionale di giustizia perché si occupa dei crimini internazionali commessi da individui e non da Stati; nel caso in questione, di Karadžić e Mladić. Israele ha firmato ma non ratificato la Convenzione.