I primi trent’anni

Cosa è successo negli ultimi trent’ anni dall’insurrezione armata zapatista nelle comunità indigene e in Messico? Sarebbe molto pretenzioso voler raccontare in un breve saggio ciò che è accaduto, i cambiamenti, gli aspetti positivi e negativi. Forse bisognerà ricordare alcune delle grandi conquiste, l’impatto sul Paese e l’attuale fase che il movimento sta attraversando.

Trent’anni sono un periodo di tempo molto lungo e nel mondo indigeno ciò coinvolge almeno un’intera generazione. Quelle che erano bambine nel 1994 ora sono madri e presto saranno nonne. Coloro che hanno imbracciato le armi, i giovani tra i 18 e i 25 anni, ora sono i nonni della loro comunità, presiedono le assemblee e prendono le grandi decisioni nei loro spazi di autogoverno. Rimangono alcuni comandanti storici: Moisés, David, Zebedeo, ma ci sono molti nuovi comandanti. L’irruzione delle donne nel cammino zapatista è impressionante.  Alla cerimonia dell’anniversario sono state loro, le donne, le principali protagoniste dell’evento.

In trent’anni il Messico è cambiato e molto di questo è dovuto all’insurrezione armata zapatista. La loro lotta ha ispirato un risveglio sociale che ha portato al rovesciamento del Pri (Partido Revolucionario Institucional), il partito al potere da oltre 72 anni. C’è stata un’irruzione sulla scena di nuovi attori, soprattutto indigeni, donne e giovani. Se è vero che il governo non ha rispettato gli accordi di pacificazione e non ha rispettato gli Accordi di San Andrés, le comunità indigene e i popoli indigeni di tutto il Paese sono diversi: resistono e difendono le loro terre e i loro territori con maggiore forza e orgoglio; curano e proteggono fiumi, montagne e selve a dispetto delle imprese e dei criminali che vogliono eliminarli.

Certo, molti sono caduti, hanno abbandonato, stanchi, il cammino zapatista, ma molti altri si sono uniti e altri ancora si ispirano alla “rabbia dignitosa” con cui difendono la vita e il futuro.

Resistenza e creatività

Le comunità zapatiste sono ancora lì, a resistere all’offensiva della predazione capitalistica che vuole impadronirsi dei loro territori e delle loro ricchezze. Mantengono i loro territori nonostante l’instancabile guerra a bassa intensità e il logoramento che hanno subito in questo tempo. È stato difficile vivere ai margini della distribuzione di risorse economiche da parte dello Stato e, soprattutto, costantemente vessati dall’esercito e dai paramilitari. Ciononostante, eccoli lì a festeggiare trent’anni anni di insurrezione.

Un nuovo rischio per le comunità zapatiste e non zapatiste è la criminalità organizzata.  Gruppi paramilitari addestrati dall’esercito, e alcuni membri dell’esercito stesso, sono entrati a far parte dei ranghi della criminalità organizzata nella regione e affrontano battaglie in sordina per il controllo delle rotte dei migranti, della droga, delle armi e dei beni illegali. Oggi è una seria minaccia che l’intera popolazione del Chiapas e di molte parti del Paese deve affrontare. È un’industria criminale prospera e fiorente. In molte zone la mafia fa parte del governo locale e delle forze dell“ordine”. È una sfida importante per la sopravvivenza dello zapatismo e delle organizzazioni sociali che si oppongono a questo mercato criminale.

La Scuola di San Cristobal

Un’eredità che voglio sottolineare tra le tante che il processo zapatista ha significato in Messico e in molte parti del mondo è quella che definisco “la Scuola di San Cristobal”. Così come chiamiamo “Scuola di Francoforte”, il gruppo di pensatori della sinistra tedesca della metà del XX secolo e così via, altre scuole di artisti o di pensatori, come la Scuola fiorentina (pittura), la Scuola di Salamanca (teologia) e tante altre. Sono convinto che la rivolta zapatista, avvenuta in un contesto molto particolare di post guerra fredda, di crisi del capitalismo e di irruzione del neoliberismo, abbia dato origine a un nuovo modo di pensare che chiamo “La Scuola di San Cristóbal” con persone, uomini e donne che riflettono-agiscono-sentono in una nuova logica ai margini del corso egemonico ortodosso del pensiero dominante. Gustavo Esteva caratterizza così il contesto dell’insurrezione e le sue conseguenze: “L’insurrezione zapatista ha avuto luogo in un momento storico particolare, quando le forze contro-egemoniche erano indebolite e disarticolate. In queste circostanze ha operato come una sveglia globale dei movimenti antisistemici” (Esteva, G. 2021. Verso una nuova era).

Mi riferisco, ad esempio, al gruppo di persone “senti-pensanti” (Eduardo Galeano) che ha prodotto i piccoli libri recentemente pubblicati nella Collezione Al Faro Zapatista (https://alfarozapatista.jkopkutik.org/libros-de-bolsillo/) e a quelli di noi che, da contesti molto diversi, hanno cambiato il nostro agire-pensare-sentire di fronte al mondo. Ci sono molte persone che scrivono, pensano e lavorano con lo sguardo rivolto a una nuova era davanti a sé.

Alcune delle caratteristiche più rilevanti di questo nuovo sentire-pensare-fare, entro la nuova epoca ed entro la crisi di civiltà, sono l’identificazione del nuovo momento storico in una rottura radicale con il patriarcato; l’emergere delle diversità, in cui i popoli indigeni, le comunità ancestrali convivono con pari opportunità e dignità rispetto agli altri e in contesti di autonomia nel rispetto di altre modalità di governo. In questo senso, vale la pena leggere il libro di Xochitl Leyva, Guerras, zapatismo, redes (Guerre, zapatismo, reti, 2021), nel quale affronta il tema delle identità e delle controversie di genere che gli zapatisti hanno affrontato nel loro operare e nel loro essere.

Un’altra grande fonte di azioni e di riflessioni che scaturisce da questa eredità zapatista è la lotta anticapitalistica, con la resistenza alla “modernizzazione” e allo “sviluppo” neocolonialista. La proposta è molto semplice e radicale: consumare ciò che produciamo. Carlos Alonso Reynoso e Jorge Alonso, nel loro libro Un Somero Acercamiento al Zapatismo (Un breve approccio allo zapatismo), rilevano che “gli zapatisti sono convinti di dover costruire la loro vita da soli, con autonomia.  Ascoltano i dolori e le sofferenze vicine e lontane, poiché chi comanda davvero nel capitalismo non si accontenta di continuare a sfruttare, reprimere, disprezzare ed espropriare, ma distruggerà il mondo intero alla ricerca di maggiori profitti” (Reynoso, C. 2021).

Il terzo elemento è il “comandare obbedendo” e la rotazione nell’esercizio del potere.  Fino a poco tempo fa, i caracoles (regioni organizzative delle comunità autonome zapatiste) hanno rappresentato un’ispirazione per la partecipazione ai processi di governo locale, in contrapposizione ai partiti politici che comportano spaccature nella comunità, alla stregua di franchising commerciali che non rappresentano gli interessi della popolazione e la cui ideologia è il marketing e la pubblicità. Molto è stato scritto su questo tema e c’è una costante evoluzione nelle loro forme di governo. La chiave è la partecipazione di tutti all’esercizio del potere, che non deve essere accentrato e i cui periodi di esercizio devono essere brevi.

Altre eredità

Un tema importante ereditato dallo zapatismo nella Scuola di San Cristóbal è l’epistemologia e la pedagogia.

L’apprendimento avviene ponendo domande. Si cammina chiedendo e si impara camminando. Non ci sono verità definitive che diventano ideologie stantie nel tempo.  Si cammina e lungo la strada si vedono i sentieri. Non esiste una cartografia predefinita che definisca il percorso del viaggio. L’incertezza fa parte del modo di imparare e di insegnare.

Le piccole scuole zapatiste, che negli ultimi anni hanno insegnato a tanti come imparare, non erano altro che scuole di come fare domande e come camminare.  Non c’erano contenuti definiti o definitivi. Paulo Freire avrebbe potuto benissimo frequentare quei corsi per riscrivere il suo libro Pedagogia degli oppressi.

Per anni, prima che lo zapatismo fiorisse, nella selva si apprendeva con la pedagogia del tijuanej, il pungiglione (in lingua tzeltal), che irrita e spinge alla domanda-azione. Lo zapatismo recupera l’idea dell’assemblea ad ampia partecipazione in cui tutti condividono, tutti insegnano e tutti imparano collettivamente.

Oltre gli anniversari 

Lo zapatismo sta festeggiando gli anni di vita pubblica, ma ha molti più anni di vita nascosta, come le piante, come le grandi ceiba (“alberi della vita” maya). I semi impiegano tempo, nell’oscurità della terra, per emergere in superficie sotto forma di fragili steli. Gli steli, vulnerabili alle intemperie, resistono imitando il sottobosco finché non hanno la forza di resistere all’assalto. Nutrendosi dal basso, crescono anche verso l’alto. Ci vuole tempo perché diventino grandi alberi.  Lo zapatismo, nei suoi trent’anni d’età, è un albero che ospita sotto la sua ombra una grande biodiversità. È tempo di festeggiare.

Traduzione dallo spagnolo di Giorgio Riolo

Pablo Romo Cedano ha studiato filosofia e teologia. Domenicano, ha partecipato con il vescovo Samuel Ruiz alla Commissione di mediazione tra l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale e il Governo Federale Messicano (1994-1998). È stato direttore del “Centro diocesano per i diritti umani” di San Cristóbal de Las Casas, in Chiapas (1993-1997), e poi presidente di Dominicans for Justice and Peace. Oggi insegna all’università ed è attivista sui diritti umani e sulla pace.