Un ricordo di Barbara Balzerani

“Era fatta dell’impasto dei giganti e forte com’era delle ragioni di un fiero senso di appartenenza a cui non è da tutti arrivare, rimase salda sulle sue gambe che conoscevano la fatica di tutta una vita. L’eredità che ha lasciato è sfida aperta a chiunque pensi di mettersi in cammino sulla sua stessa strada”. Queste parole che tu, Barbara, dedichi alla compagna Caterina Picasso, penso che si addicano perfettamente a te e al ricordo di te, ora che ci hai lasciati.

Di te ci restano l’aspra grazia di fanciulla, il profondo senso critico, la concretezza di un’intelligenza che ti veniva dalle tue radici operaie, la forza e la malinconia della tua scrittura.
Il tuo primo libro, Compagna luna, mi ha fatto compagnia alle Vallette, quando quella luna, per te uscita di detenzione e catapultata in un mondo che non riconoscevi, era l’antidoto allo spaesamento, mentre per me per la prima volta detenuta, rappresentava il legame con i cieli della mia valle e l’intimità della mia casa.

Tu la mia valle e la sua gente l’hai conosciuta e praticata, condividendo le istanze della lotta NO TAV.
Di quei tuoi giorni in Valle di Susa mi restano momenti cari, come una cena in Credenza insieme alla nostra Giuseppina che ti fu compagna di militanza e di carcere nei giorni in cui si scontavano dietro le sbarre le speranze dell’assalto al cielo.

Ma c’è soprattutto un ricordo che ha il potere di rievocarmi la tua figura, di riportarla a noi oltre la morte.
Siamo in Clarea, dove ti ho accompagnata, insieme ad alcuni attivisti romani, a vedere la devastazione del cantiere TAV.
Sotto una pioggerella insistente e fredda percorriamo la stradina fra i boschi che porta agli antichi Mulini di Clarea. Il cantiere ci si para innanzi come una ferita aperta, una lebbra che si allarga e, là dove c’era un mondo verde di terra ed acque, produce ruspe, gru, blindati della polizia e mezzi militari, un deserto di veleni e cemento.

Incontriamo la piccola baita che ci fu presidio nei giorni della libera repubblica della Maddalena e ora giace in abbandono dentro le reti.
Procedendo lungo le recinzioni, arriviamo al “Campo della memoria”, al grande ciliegio che si allarga protettivo sul piccolo giardino roccioso e sulla stele di pietra eretta a ricordo dei compagni NO TAV che non sono più tra noi.

Di fronte, blindato da un grande cancello, sta l’ultimo varco del cantiere, ancorato alle strutture autostradali. Nell’ombra del viadotto stanno perennemente acquattati mezzi militari, ma di solito il cancello resta chiuso, senza pattuglie visibili… non questa volta però: al nostro arrivo, il cancello si apre e si materializza un drappello di Digos che ci identificano e si portano via i nostri documenti.

Ne aspettiamo a lungo la restituzione, sotto la pioggia che si infittisce, senza risposte alle nostre richieste. Quando finalmente i documenti ricompaiono, a te, Barbara, vengono riconsegnati per ultima, e con un commento: “Sara, vero?”. Le labbra che pronunciano il nome di battaglia della Barbara militante BR sorridono, ma gli occhi sono quelli dell’inquisitore di sempre, del potere che ti condannò con i suoi tribunali, le carceri speciali e la lapidazione massmediatica del “fine pena mai”.

Non dimentico il tuo sguardo ironico, dritto in faccia al digossino, il tuo silenzio e te che, ritirato il documento, te ne vai, dignitosa e serena, come chi sa che “bisogna misurare il bene e il male sui tempi lunghi, tutti quelli che ci vogliono perché ci possa essere ancora un domani”.

Ripercorriamo il sentiero sulla via del ritorno, come in bilico tra due mondi: la vita verde dei boschi e della terra rigenerata dalla pioggia e il plumbeo grigiore del cantiere su cui la pioggia nulla può.
Ora tu te ne sei andata, ma non il ricordo di te e, anche per te, al Campo della Memoria della Valle che continua a resistere, vive, ricoperto di una bianca, precoce fioritura, il grande ciliegio.