Avete presente l’effetto del sale sulla terra, con il suo significato storico e metaforico?

Gettare e spargere sale per fare della morte di un luogo la sua impossibilità di rinascita.

Ad Alghero, come in altre parti della Sardegna, specie quella costiera, il turismo è il sale rosa gettato su una terra dove per troppo tempo ha vinto l’indifferenza sul senso comune, il privato sul pubblico, il consumo sulla vita.

L’elenco delle opere coloniali dello Stato italiano (e non solo) è ormai, stancamente ripetuto e drammaticamente fitto: dall’occupazione militare alla speculazione energetica; dall’ottriata complicità nel massacro dei popoli, in particolare quello palestinese e yemenita, alla tortura carceraria, al becero 41 bis e al razzismo di Stato nei cpr; dalle infiltrazioni mafiose nelle coste sarde al turismo di massa e costituzione della Sardegna come stabilimento balneare o enorme area ristorativa, fatta di cucina di consumo di massa.

Qui, nella “Riviera del corallo” ci troviamo davanti un’ennesima opera di privatizzazione dell’ambiente naturale, dove nel “naturale” è insito il concetto del pubblico, ma un pubblico ben specifico, quello dell’essere vivibile da tuttə perché nessunə può dire di averlo creato.

L’oggetto di occupazione da parte di privati è l’area del Calabona, il litorale sulla strada verso Bosa, un tratto di scogliera tra un’hotel e la “platgeta del Quintillo”. Quest’area è diventata per le algheresi il luogo che, differentemente dal lido, permetteva di vivere il mare e le spiagge senza le folle accaldate e ammassate. Quelle spiagge, o meglio, quegli scogli che sono diventati i luoghi di un popolo e dell’infanzia, dei “calamari” ai piedi per non farsi male, e di quella sabbia diversa, più ruvida, aspra, senza la falsa dolcezza di un’estate obbligatoriamente felice e alla portata del consumo astorico.

I lavori di cancellazione della natura e della sua storicità sono iniziati con una grande aratura nel terreno compreso fra gli scogli e il mare, per mezzo di benne escavatrici che hanno eliminato la vegetazione spontanea. Insieme a questa azione, arriva la “legittimità” e autorizzazione del Comune di Alghero, dell’11 aprile 2023, che giustifica il tutto sotto una definizione tanto suggestiva quanto vuota e fumosa: “opera di ingegneria naturalistica”. Ma non ci sono solo azioni e parole di carta, arrivano anche i soldi: 25’000 euro spesi per un’opera di manomissione che, bocciata dalla Soprintendenza al paesaggio di Sassari e dal Comune di Alghero nel novembre 2021, viene poi  recuperata nel 2023 con la realizzazione “di una concessione, tra pedana in legno e pontile per barche fino a 12 metri, dell’estensione di quasi 5mila metri quadrati. Molto probabile anche la realizzazione di un punto di ristoro, bar e altri servizi” (fonte: algheronews).

D’altro canto, l’instancabile presenza di una comunità resistente come l’associazione Punta Giglio Libera – Ridiamo Vita al Parco ASP, ha scritto una nota stampa per iniziare un ennesimo percorso di lotta e di opposizione alla privatizzazione dell’ambiente comune. L’associazione riflette inoltre “su quanto potrebbe essere pericoloso iniziare a diffondere la pratica di prendere in concessione tratti di scogli pretendendo poi di dargli lo standard di “percorribilità e comodità” che ti danno le spiagge. Siamo arrivati al paradosso di dover affiancare allo slogan spiagge libere anche scogli liberi”.

È  proprio partendo da queste ultime parole dell’associazione Punta Giglio Libera che si sottolinea il più profondo messaggio di questo articolo: la preoccupazione di un dilagare di queste pratiche è, in realtà, già affiancata da una pratica coloniale, interna ed esterna, di privatizzazione e occupazione dei luoghi per favorire il privato e il profitto; emblematico è quanto successo a Punta Giglio, così come è altrettanto grave lo sviluppo privato e il sottosviluppo valoriale, sociale e popolare del centro storico di Alghero, passato da un centro di storia, cultura e zona popolare, a un centro commerciale con l’eccessiva presenza di locali di somministrazione di cibi e bevande, molti dei quali detenuti in poche mani, con conseguente centralizzazione del profitto in quello che confluisce in un modello di potere oligarchico aggiunto al Comune, il quale fedelmente da quindici anni lecca il pelo alla classe imprenditoriale, tacendo su una pianificazione commerciale (assente dal 2007 ad oggi) e facendo leva su un turismo sempre più cieco, intensivo e utile al benestare dei padroni. Questa eccessiva presenza commerciale inoltre, mettendo le mani sulla città, alimenta lo sfruttamento sul lavoro stagionale, con paghe risibili e contratti fantoccio con dieci, dodici, quattordici ore di lavoro al giorno; e alimenta altresì, l’eliminazione delle piazze principali costrette a dover essere identificate come piazze solo se queste hanno i locali.

La natura viene ormai incanalata in un rapporto con l’essere umano concependo questa come oggetto; una natura oggetto che serve a l’essere umano non certo per soddisfare i suoi bisogni, ma per crearne di nuovi, un nuovo tipo di bisogno artificialmente iniettato per soddisfare l’inutile senso distorto dell’abbondanza, che vede nella natura un luogo per investire, un luogo troppo selvaggio, spontaneo e non prefigurato, da sofisticare, modellare e addolcire. Dove ora, al Calabona, è presente un freddo cartello informativo sui lavori, la conseguenza sarà lo spettacolare cartello pubblicitario di un luogo che dietro la dichiarazione di “rinaturalizzazione” e di tutela della natura, si procede di contro, a una voglia dell’essere umano, schizzinoso, patriarcale e urbanizzato, di proteggersi dalla natura, troppo sovversiva per il neoliberismo e per il turismo.

Ad Alghero, il clima dilagante di indifferenza fa sì che si utilizzi erroneamente un famoso proverbio locale: l’algueres és com lo cutxo de l’oltolà, no mengia i no deixa mengià. (L’algherese è come il cane dell’ortolano, non mangia e non lascia mangiare). Questo proverbio viene rivolto a chi oggi qui in città cerca di rompere il muro del silenzio. Quello che noi invece dobbiamo opporre è la critica a chi si riempie la pancia in nome del profitto sullo sfruttamento del pubblico, quindi lo duenyo que mengia i no deixa mengià. (Il padrone che mangia e non lascia mangiare).

È necessario dunque dare corpo a una comunità non delegabile, resistente e popolare che si opponga fisicamente e verbalmente a tutto questo, analizzando criticamente il turismo e lottando contro i suoi effetti nefasti, per distruggerli definitivamente. Queste, ad Alghero, sono diventate ormai fra le imprescindibili azioni di liberazione collettiva contro la liberalizzazione capitalistica e statale.

Cristian Grosso