È una pagina di storia poco nota, dolorosa, di cui poco o nulla si conosce al di fuori dei confini della regione.
Tra il 17 e il 19 marzo del 2004, esattamente venti anni fa, un violento pogrom a sfondo etnico fu scatenato contro la popolazione serba del Kosovo, da parte di estremisti e ultranazionalisti albanesi kosovari, su cui ancora oggi non si è riusciti a fare piena luce e giustizia.

In occasione del ventennale, un nuovo monumento memoriale è stato inaugurato nella cittadina serba del Kosovo di Gračanica, presso la nota installazione artistica “Missing”, a sua volta dedicata ai dispersi e scomparsi, presso la Casa della Cultura.

In occasione della cerimonia, intervenendo in qualità di vice direttrice dell’Ufficio per il Kosovo della Repubblica di Serbia, Dušica Nikolić ha commemorato quegli eventi, ricordando che «tocca a noi fare tutto il possibile per non permettere mai più nuovi pogrom, né nuove Tempeste (riferimento all’operazione Tempesta, condotta dal 4 all’8 agosto 1995 dalle forze croate per “liberare” i territori della Repubblica serba di Krajina, che causò almeno 2.000 morti tra i civili serbi e circa 250.000 profughi), per proteggere il nostro popolo e preservare la pace come valore più grande».

Al contempo, Dejan Ristić, direttore del Museo delle vittime del genocidio a Belgrado, ha osservato che «oggi ricordiamo uno degli eventi più drammatici della nostra storia, quando l’odio, che in poche ore tolse la vita a non pochi innocenti, colpì più di 4.000 persone, distruggendo decine di santuari e centinaia di case».

Secondo il Rapporto OSCE-UNMIK (“Quattro anni dopo. Sviluppi inerenti ai casi legati ai disordini del marzo 2004 di fronte al sistema della giustizia penale del Kosovo”, luglio 2008), «gli eventi drammatici e violenti del marzo 2004 hanno rappresentato una grave battuta d’arresto per il Kosovo nei suoi sforzi per diventare una società multietnica e tollerante che rispetta i diritti delle comunità non maggioritarie e lo stato di diritto».

L’esplosione di violenza, un vero e proprio pogrom contro le comunità non albanesi in molte località della regione, eruppe dopo l’annegamento di tre bambini albanesi, per il quale erano stati falsamente accusati dei serbi e che era stato erroneamente ritenuto un crimine di matrice etnica.

Di conseguenza, secondo il rapporto, «le manifestazioni si sono rapidamente dirette contro i serbi in tutto il Kosovo; 19 persone sono state uccise, più di 900 sono rimaste ferite e più di 800 edifici sono stati distrutti o danneggiati tra cui 29 chiese e monasteri.
Secondo una stima, più di 50.000 persone hanno preso parte ai disordini», un numero impressionante.

Secondo il rapporto sulla Missione UNMIK (Rapporto S/2004/348, 30 aprile 2004), «l’assalto condotto dagli estremisti albanesi contro le comunità serbe, rom e ashkali del Kosovo ha rappresentato una campagna organizzata, diffusa e mirata.

Gli attacchi ai serbi si sono verificati in tutto il Kosovo e hanno coinvolto principalmente comunità stabilite, che erano rimaste in Kosovo nel 1999, nonché un piccolo numero di siti destinatari di recenti rimpatri.

Le proprietà sono state demolite, strutture pubbliche come scuole e cliniche sono state distrutte, le comunità sono state circondate e minacciate e i residenti costretti a lasciare le loro case.

Gli abitanti di interi villaggi sono stati costretti alla fuga e, dopo la loro partenza, molte case sono state date alle fiamme e rase al suolo.
In altri casi vi sono stati tentativi di occupare abusivamente e, in alcune circostanze, di prendere possesso di proprietà abbandonate».
Per le caratteristiche dei saccheggi, non solo la volontà di intimidire le comunità serbe rimaste, ma anche di impedire il rientro dei serbi dopo la guerra.

Tra le conseguenze, anche la perdita di un inestimabile patrimonio culturale: almeno trenta i siti culturali distrutti completamente o parzialmente, tra cui anche siti che erano già stati, come parte del patrimonio serbo-ortodosso, vandalizzati dopo la guerra: come detto, 29 tra chiese e monasteri.
Il complesso di Nostra Signora di Ljeviš (Bogorodica Ljeviška) a Prizren, patrimonio mondiale dell’umanità, dato alle fiamme; la Chiesa del SS. Salvatore a Prizren (XIV secolo); la Cattedrale di S. Giorgio a Prizren (1856); la Chiesa di S. Nicola (Tutić), la Chiesa di S. Giorgio (Runović), la Chiesa di S. Kyriaki (Sv. Nedelje) a Potkaljaja (Prizren), le Chiese di S. Panteleimon e dei SS. Cosma e Damiano, ancora a Prizren; il Monastero degli Arcangeli a Prizren (XIV secolo), incendiato; il Seminario Ortodosso colpito; e ancora il Monastero di S. Joanikije di Devič (1434) saccheggiato e incendiato, la Chiesa di S. Nicola a Kosovo Polje saccheggiata e la Chiesa di S. Elia a Podujevo, distrutta, col vicino cimitero serbo, profanato.

Sono questi i motivi per i quali, per quanto poco nota, la vicenda del pogrom del marzo 2004 non può e non deve essere dimenticata; non solo per tenere viva la memoria, ma anche per contrastare la violenza e per ribadire, in un panorama ancora segnato da problematiche e contraddizioni, tensioni e violenze, l’esigenza della convivenza, il rispetto delle culture e dei diritti, la tutela della pace.