Una leggenda, mai letta né leggibile, per davvero, solo ascoltata e immaginata, narra che venne un tempo in cui Medusa, pare fosse questo il nome con cui venisse chiamata, insieme alle sue sorelle, volesse incontrare le poetesse e altre donne dell’ampio circondario, tra il mare e i monti Zephirio. Si sentiva in giro che queste trascorrevano il proprio tempo tra canti d’amicizia e d’amore. Li intonavano per loro stesse, per la loro terra, per vibrare insieme. Questo accadeva da sempre, ma ora, tra queste, pare si iniziasse a sentire sempre più profondamente un canto che toccava note e rincorreva ritmi liberatori, visto, sentito e considerato che il mondo che abitavano era invaso, diviso, lacerato da un frastuono ottundente la vita stessa. Una catena di mille catene incatenava il mondo.

Questo frastuono dava la sensazione, ad alcune, di guerra permanente, che infatti c’era, terribile e sempre più viva – la guerra, mentre la vita sulla terra era devastata dalla morte imposta dal nemico, e si moriva – non si viveva – quasi senza più alcuna distinzione tra fuori e dentro i campi di battaglia. Questo accadeva ovunque per il mondo. In ogni caso, a tutte e tutti, quel frastuono ingoiava il tempo e lo rendeva, come in un maleficio, non più pienamente vivibile. Il tempo era come un continuo tuonare – un’attesa e emergenza permanente, suoni di catene che tentano di essere smosse, ma fanno solo frastuono – mentre la tempesta che fa tornare il bel tempo non arriva mai. Qualcuno diceva che si viveva un permanente presente nel quale, in quel frastuono, sempre meno si riusciva ad essere presente, anche a se stessi, presenti e in ascolto, in possibilità di comprendere e comprendersi, e vivere nella condivisione di questa ricerca di conoscenza possibile. 

In questo frastuono, Medusa si incamminò domandando quale fosse la direzione per giungere da quelle poetesse dai canti liberatori, e qualche viandante ancora non completamente rimbecillito da quel malefico tuonare, le disse che era sulla strada giusta. Medusa non andava chiedendo propriamente perché non sapesse la strada, anzi sentiva che ogni strada l’avrebbe portata da loro; mettendosi in cammino, si diceva, si sarebbero incontrate, eppure le piaceva, godeva, gioiva nel camminare domandando, su strade e sentieri comuni di ricerca. 

Spesso, a Medusa capitava, in questi cammini, di ridere da sola mentre pensava a tutte le terribili cose che si erano inventate sul suo conto, sulla sua testa: miti al maschile concepiti già nel solco della separazione, e che erano finiti per celebrare proprio quel potere contrario, ostile e avverso a quel cammino di ricerca aperta di Medusa e altre. Un tipo di potere che con la guerra esclude subdolamente il conflitto e le contraddizioni insite nella vita insieme, mentre assoggetta quest’ultima in un monopolio della violenza e della forza. Questo stesso potere erige fortezze e al contempo bolle di sapere strumentale e al servizio del dominio di pochi su molti e molte.

“In che rapporto siamo finiti con la conoscenza? Ma anche solo con le parole? Davvero sono solo serve e utili al dominio? Davvero le subiamo, possiamo mai essere diventati oggetti di conoscenza e non essere più soggetti della conoscenza? Siamo davvero costretti in questa separazione binaria?”

Medusa, in queste riflessioni, rideva amaramente di quei miti, che erano già il prodotto, si diceva, della colonizzazione al maschile della conoscenza. Certo ne aveva passate tante Medusa, ma le storie che si erano inventate su di lei erano davvero di ogni sorta. Quella che al contempo la faceva più ridere e alterare era l’idea che alcuni si erano messi in testa, e cioè che la volevano uccisa da un certo Perseo, il quale dicevano se ne andasse in giro con la testa di Medusa come arma per sconfiggere i nemici in battaglia. “Ahah” – pensava – “ma davvero vi piace sentirla raccontata così questa storia?” E allora, nel suo peregrinare, ribaltava i piani e immaginava che da qualche altra parte, la storia raccontata su di lei narrasse, invece, che era lei che andava in giro con la testa di Perseo, come se questa fosse un mazzafrusto che all’occorrenza le serviva per difendersi dai ciarlatani guerrafondai che popolavano il mondo. Mentre queste immagini le comparivano e la facevano anche ridere, si palesava insieme la sensazione che questo gioco di specchi poteva essere al massimo un modo per guardare alla mostruosità del potere, che brama la dominazione – in definita – rendendo mostruoso ciò che intende dominare. Oltre a questo modo che produce solo mostri, qual è la conoscenza possibile? Si domandava, “Forse, la conoscenza che supera le divisioni imposte dalla e nella corsa dell’uomo alla tecnoscienza, cioè alla scienza del dominio, la conoscenza immaginata e vissuta come comprensione e smottamento dei solchi divisori tra i campi di sapere”… Fece una pausa e continuò ad alta voce “come acqua che sgorga e prende le ali e vola al cielo e ritorna con altra conoscenza, conoscenza altra, nell’esperienza della vita.” Mentre parlava ad alta voce, per spezzare questi pensieri così carichi del frastuono del presente, disse ad alta voce: “Nosside” – “ascolterò cosa intonano lì da Nosside e il loro canto”.

Giunta al villaggio dove vivevano le poetesse, pensò di riposarsi un pò prima di incontrare le altre. Scelse un posto per dormire qualche ora, si appisolò e ancora in dormiveglia ripassava la poesia/canto che avrebbe condiviso con loro:

“Vivono, guardando il cielo di mezzanotte,

  Supino il picco nuvoloso della montagna;

Di sotto si vedono tremanti terre lontane;

 L’orrore e la bellezza

Si avvolgono in disperazione

Ma mani formano altri occhi

altri sguardi

Bellezza come ombra, che rompe i santuari di luci accecanti,

Ardente e lurida, lottando sotto,

Le agonie dell’angoscia e della guerra

E sopra, contro ogni sopra che assoggetta” 1

Si addormentò per un pò. E, potremmo dire, sputa che indovini, sognò Pegaso – cavallo alato degli eroi nella raffigurazione cristallizzata in secoli di dominio. Le chiacchiere, forse come si sa fino ad oggi, dicevano che Pegaso fosse nato dal sangue di Medusa, quando venne uccisa. Lei lo sognò nell’amicizia in cui si riconoscevano, e anche Pegaso accompagnò il suo canto nel sonno. Ne avvertiva la presenza e la vicinanza come si sente l’acqua scorrere da una sorgente ad un fiume e come si sente l’acqua che ci attraversa e ci compone dentro. Era sempre così che si incontravano, in sogni riparatori – quei sogni che si fanno per riconnetterci con gli elementi di cui siamo fatti e di cui è fatta la vita, per elaborare i traumi causati dalle fratture con questi elementi. Si svegliò dopo poco, anche se le sembrò un sonno lungo, e a levarla fu proprio il canto di Nosside e di altre donne. Erano poco più in là, sotto un grande albero – sempre più sacri per loro, quanto più bersaglio di quel potere mortifero. La gioia riempì il cuore di Medusa che subito fece per avvicinarsi a loro, ma non voleva interromperle.

Così, quatta quatta provò a sedersi in mezzo alle note intonate dalle donne, ma appena la poesia andava terminando, Nosside chiese a Medusa se fosse lei o qualcun’altra e che se ne dicevano talmente tante sulla suo essere che non sapeva più, in quel frastuono… se fosse davvero lei.

Medusa rispose che “Sono qui, lo capiremo insieme”… Risero forte e sembrava loro di avere avuto lo stesso pensiero: Chi erano? erano il divenire, il cambiamento che desideravano. Nella pausa tra un canto e l’altro, Medusa chiese se quello era il luogo in cui si riunivano più spesso o erano solite andare in giro con i loro canti ovunque là attorno. Entrambe le cose, rispose Nosside, ma “questo albero ci ascolta e noi lo ascoltiamo e quindi qui spesso ci veniamo.” E Nosside aggiunse: “c’è una cosa che volevamo dirti una volta che saresti arrivata, e ora che sei qua forse lo hai già notato”. Medusa si guardò attorno e vide che le donne, non molto lontano dall’albero, avevano creato una frescura, un riparo – sempre aperto e mai davvero rinchiudibile – per tutte le creature viventi che, in movimento per il mondo, erano in cammino, in ricerca, come loro, di canti d’amicizia e d’amore, quei canti liberatori e contro il frastuono del dominio, contro il dominio. Medusa disse “ci sono le altre sorelle che non sono venute oggi qui, ma torneremo presto anche con loro, e per allora sotto le altre frescure e altre ombre che ancora si creeranno, l’albero continuerà ad insegnare come costruire altri ripari, da dove la luce non è dominio, ma è vita ancora possibile.”

Ricominciarono il canto fino a tarda notte, senza più nessuna interruzione, solo liberazione.

Traduzione in italiano e riscrittura di un estratto della poesia di Percy Bysshe Shelley “On the Medusa of Leonardo Da Vinci in the Florentine Gallery” (1819-1820)