In vista del Giorno della Memoria, 27 gennaio 2024, e data la drammatica situazione tra Israele e Palestina, abbiamo deciso di intervistare Bice Parodi, ospite dell’ultima edizione dell’Eirenefest, e figlia di Piera Sonnino sopravvissuta ad Auschwitz. Piera Sonnino, figlia di Ettore Sonnino e di Giorgina Milani uniti da un matrimonio ebraico nel 1910 a Roma, era nata a Portici, Napoli, l’11 febbraio 1922, e fu la quarta di sei figli. La famiglia Sonnino dopo alcuni anni a Portici si trasferì prima a Milano e poi definitivamente a Genova.

A seguito dell’emanazione delle leggi razziali del 1938, la famiglia conobbe l’emarginazione, la perdita del lavoro e la fame, tuttavia Piera racconta di come durante quegli anni non mancarono gesti di solidarietà di non ebrei. La situazione però precipitò dopo l’8 settembre 1943, quando i nazifascisti occuparono il nord e il centro Italia. La famiglia Sonnino, nonostante le difficoltà rimase sempre unita cambiando varie volte il rifugio dove si nascondeva, fino a quando, il 12 ottobre 1944, a causa di due delatori, venne catturata da dei poliziotti italiani. Uno di questi disse: «Ebrei… veramente ebrei. Hanno inchiodato Nostro Signore Gesù Cristo, gli ebrei. In che guaio vi siete messi da allora. In che guaio. E chi può darvi retta dopo quello che avete fatto?». In queste parole, riportate da Piera nel suo libro, possiamo renderci conto di come l’antigiudaismo fosse sopravvissuto all’interno dell’antisemitismo. La famiglia venne divisa tra uomini e donne e trasportata nelle carceri di Marassi, da dove fu poi deportata nel campo di Bolzano e il 23 ottobre nel campo di concentramento/sterminio di Auschwitz-Birkenau. La destinazione fu raggiunta il 28 ottobre, e lì la famiglia venne divisa.

Dopo alcuni giorni di “lavoro”, Piera, matricola A-26699, la sorella maggiore Maria Luisa, matricola A-26698 e la sorella minore Bice, matricola A-26700, vennero deportate nel campo di Bergen-Belsen. In quell’inferno Piera perse prima la sorella maggiore e poi la sorella minore nel gennaio 1945; nel mese di marzo fu deportata nel campo di Berndorf.

Lei sopravvisse, ma tornò a Genova solo nel settembre del 1950, dopo anni di case di cura e sanatori per guarire da gravi patologie bronco-polmonari e scoprì di essere l’unica sopravvissuta della sua famiglia: aveva perso sua madre, suo padre, una zia e cinque tra fratelli e sorelle. Nonostante l’estrema difficoltà, ritrovò una zia e una cugina grazie alle quali tornò a vivere. Si mise a lavorare come dattilografa e così conobbe Antonio Parodi, giornalista de L’Unità, che sposò nel 1954. Attraverso di lui si avvicinò al Pci, e per questo non fu più accettata dagli ultimi parenti rimasti.

Piera decise di scrivere un memoriale per la sua famiglia datato “Genova, luglio 1960” e intitolato “La notte di Auschwitz”. Il manoscritto, una sessantina di fogli fotocopiati dall’originale battuto a macchina, fu conservato nel privato della famiglia per 42 anni, fino a quando, nel 2002, tre anni dopo la morte di Piera, le figlie Bice e Maria Luisa, chiamate così in onore delle sorelle perse nella Shoah, inviarono il testo a Diario, una rivista settimanale, che lo pubblicò. Da lì poi il racconto di Piera divenne un libro, tradotto in molte lingue, col titolo “Questo è stato. Una famiglia italiana nei lager”, edito per la prima volta nel 2004 da il Saggiatore e ripubblicato dallo stesso in nuove edizioni, a cura di Giacomo Papi e con la prefazione di Enrico Deaglio. Un anno prima di morire, Piera accettò di farsi intervistare da Chiara Bricarelli per il progetto di Steven Spielberg, Survivors of the Shoah.

A Genova  in Via Casoni, nel quartiere San Fruttuoso, nel 2018 è stata dedicata una scalinata alla memoria di Piera; una pietra d’inciampo è stata posta in ricordo della famiglia Sonnino.

Al suo ritorno a Genova, quali furono i rapporti di sua madre con la comunità ebraica di Genova?

Già prima della guerra la mia famiglia non aveva particolari rapporti con la comunità ebraica, non essendo praticante. Al suo ritorno a Genova l’adesione al Partito Comunista Italiano non contribuì di sicuro a migliorare i rapporti, anzi nei molti eventi organizzati in ricordo della Shoah la famiglia Sonnino era regolarmente “dimenticata”

Cosa pensava sua madre della questione palestinese? Questo comportò un maggiore distacco dalla comunità ebraica?

Mia madre è sempre stata contraria al progetto sionista e quindi ovviamente a favore dell’autodeterminazione del popolo palestinese.

Dopo il suo ritorno a Genova nel 1950, dopo gli anni di ricovero in clinica fu invitata da parenti che si erano stabiliti ad Haifa a raggiungerli in Israele. Lei rifiutò sia perché si sentiva più italiana che ebrea,  sia perché riteneva che andare in Israele rappresentasse una fuga e che in fondo fosse un modo per darla vinta a chi, nazisti e fascisti, aveva progettato di far scomparire tutti gli ebrei dall’Europa.

Dopo il 7 ottobre 2023, alcuni ebrei hanno espresso il timore che si possa verificare una nuova Shoah. La pensa allo stesso modo?

No, anche se i 75 anni di occupazione israeliana dei territori palestinesi, il genocidio in atto a Gaza (ma non dimentichiamo che anche in Cisgiordania le vittime sono centinaia), il chiaro intento dichiarato persino da ministri del governo israeliano di voler procedere ad una totale pulizia etnica come già nel 1948 causeranno senza dubbio una crescita dell’antisemitismo in Europa e nel mondo. Il principio sionista che vede Israele come rappresentante di tutti gli ebrei nel mondo è veramente un pericolo per tutti gli ebrei della diaspora che non si riconoscono nella politica colonialista di Israele. Negli Stati Uniti il movimento “Jewish voice for peace” è attivissimo nelle proteste e nella richiesta di un cessate il fuoco immediato e una soluzione politica. In Italia purtroppo le comunità ebraiche sembrano appiattite sulle posizioni del governo israeliano .

Per fortuna dai giovani arriva un segnale di speranza: il collettivo “Laboratorio ebraico antirazzista” ha coraggiosamente preso posizione pubblicamente dissociandosi dalla politica di oppressione del governo israeliano.

Lei è vicepresidente dell’associazione per i diritti umani Senza Paura. Come nasce e di cosa si occupa in questo momento?

L’associazione è nata nel 2009, dopo l’operazione Piombo Fuso, che fu la prima operazione militare con bombardamenti sulla popolazione civile di Gaza. Lo scopo era occuparsi di difesa dei diritti umani universali partendo dai casi del popolo palestinese e del popolo kurdo, ai quali sistematicamente tali diritti sono negati da decenni. Per questo abbiamo partecipato ad iniziative con associazioni palestinesi e kurde in Palestina e nel Bakur (il Kurdistan turco). La nostra attività cerca di unire la sensibilizzazione e l’informazione sui diritti umani alla partecipazione a progetti concreti di solidarietà.

Come pensa che si possa risolvere il conflitto decennale israelo-palestinese?

Fare previsioni è obiettivamente difficile. In questo momento il diritto della forza sta calpestando il diritto internazionale e i diritti umani. Israele sembra voler cancellare l’esistenza del popolo palestinese, invocando come sempre il suo ruolo di “vittima”. E non si può pensare a una soluzione di pace senza giustizia e senza riconoscimento del diritto ad esistere del popolo palestinese.

Spesso abbiamo sperato in una fine dell’apartheid israeliano simile a quanto successo in Sudafrica. Una transizione dolorosa, non perfetta, ma che ha consentito al Sudafrica di girare pagina su un passato dolorosissimo. Ora dopo il massacro del 7 ottobre ed il genocidio a Gaza anche questa via sembra irrealizzabile.

Se dovessi fare un sogno penserei al “confederalismo democratico” applicato in Rojava e basato sulle idee del leader kurdo Abdullah Ocalan. Una nuova forma di democrazia laica basata sul rispetto reciproco di tutti coloro che vivono in un territorio a prescindere da lingua, religione, genere.

Occorre che le armi tacciano immediatamente. Occorre spezzare il ciclo della violenza e tornare a un dialogo, che è l’unica via di uscita. Una via lunga e difficile, ma l’unica che può portare alla pace.