Da diversi anni in Italia si pratica un modo di insegnare italiano agli stranieri fuori dai canoni tradizionali, una esperienza che va al di là del suo contesto.

La scorsa settimana abbiamo raccontato la storia della Scuola comunità di Osimo, un progetto molto lontano dall’insegnamento tradizionale. Oggi vi segnaliamo un altro modo di fare scuola, ancora più particolare.

Se pensiamo ad una lezione inevitabilmente ci immaginiamo un’aula, con un o una insegnante, la cattedra e i relativi banchi dove siedono gli studenti. Alle scuole di italiano per stranieri Penny Wirton, attualmente sessanta poli didattici sparsi in tutta Italia, tutto ciò non esiste.

Il tutto nasce da un’idea di Eraldo Affinati, insegnante e scrittore, e di sua moglie Anna Luce Lenzi: nel 2008 hanno avviato questo percorso che da Roma gradualmente si è esteso un po’ ovunque.

Alle Penny Wirton – il nome fa riferimento ad un racconto di Silvio d’Arzo – non ci sono “insegnanti”, ma volontari o volontarie, spesso senza una esperienza didattica alle spalle. Gli studenti hanno una fascia di età che va dai 16/47 anni agli 80, non ci sono cattedre, e soprattutto il rapporto tra chi insegna e chi impara è uno ad uno, uno a due, quindi basato sulla relazione sociale, sull’empatia.

Si parte da chi ci sta di fronte, dalla sua storia, dalle sue esigenze, da quale italiano abbia bisogno di apprendere. Ti può capitare l’analfabeta che nel suo Paese di provenienza non è mai andato a scuola o il laureato, chi è arrivato per congiungersi con i parenti che risiedono in loco, o chi è solo e sta cercando di inserirsi nel territorio dove è arrivato. L’insegnamento si base anche sulla vita pratica, cioè i vocaboli, le frasi, che possono essere utili rispetto al contesto lavorativo in cui ci si trova.

Ma spesso la relazione si inverte: chi apprende a sua volta insegna al volontario o volontaria parole della propria lingua, trasmette la cultura del Paese dove ha vissuto per così tanto tempo.

Chi scrive da febbraio del 2019 sta vivendo questa bella esperienza a Senigallia, nella locale Penny Wirton. Due volte alla settimana, quest’anno il lunedì e il giovedì dalle 17.30 alle 19, la sala del centro sociale Arvultura si riempie delle voci dei tanti partecipanti alla scuola, il mondo in una stanza. In questi anni di attività, interrotti solo nel 2020 e parte del 2021 per la pandemia, oltre alle lezioni abbiamo dato vita a laboratori di vario genere, in particolare di musica, ma non solo.

Tra pochi giorni inizierà quello di disegno: attraverso le immagini di artisti si proverà ad insegnare l’italiano attraverso le opere soprattutto di artiste non occidentali, perché è importante, soprattutto per chi viene da Paesi dove i diritti delle donne sono ignorati, provare anche a comunicare determinati contenuti. Non è facile, ma è una scommessa che va fatta, sempre nel rispetto di chi ci sta di fronte.

Il progetto delle scuole Penny Wirton va oltre la specificità in questione e dovrebbe interrogarci sulla differenza tra un percorso simile e ciò che accade nella scuola tradizionale, sia essa pubblica o privata, estremamente standardizzata, dove l’insegnamento cala dall’alto sulla testa dei ragazzi e delle ragazze, ignorando la loro storia, la famiglia che hanno alle spalle, i loro interessi reali.

Un modo spesso burocratico e rituale, a volte interrotto dalla creatività o intraprendenza del singolo insegnante, che soffoca, uccide la gioia di apprendere, oggi ancora di più con l’implacabile affermarsi dalla logica aziendalista che ha invaso il sistema scolastico, esplicitata dalla sciagurata “alternanza scuola-lavoro”, o dalla pessima scelta degli“ Invalsi”.

E’ un’utopia pensare di mettere in discussione tutto questo? Forse, ma dalla scuola comunità di Osimo alle Penny Wirton, così come da altre pratiche presenti nel nostro Paese, arriva un segnale che andrebbe raccolto.