Ogni volta che, ormai da dieci anni senza interruzione, si spengono le luci nel teatro dove si realizza la pièce Manutenzioni-Uomini a nudo, il primo progetto per uomini non attori contro la violenza sulle donne con il quale dal 2013 giro l’Italia, si rinnova la convinzione che è stata un’intuizione giusta, quella di fare un copione dal libro Uomini che odiano amano le donne, e che i pregiudizi e le resistenze che ci sono (e ci saranno) verso il progetto sono una parte importante del percorso.

In ogni luogo, dalle grandi alle piccole città delle ormai 45 repliche che ho vissuto in dieci anni c’è un dettaglio peculiare che contraddistingue l’esperienza di conoscenza, relazione e lavoro con i manutentori, con chi organizza l’evento e con la comunità locale.

Nel 2023, decennale del progetto, gli spettacoli saranno due, entrambi a dicembre, nelle Marche a Montemarciano il 10 e in Piemonte a Pinerolo il 15.

Spesso, in questi anni, è accaduto che alcuni uomini manifestassero grande partecipazione al progetto, che non è un fatto scontato. Nello spazio pubblico, infatti, le voci femminili sono diversificate e forti da molti anni, mentre immane è il silenzio degli uomini sull’argomento. Passare dalla percezione dello stupro da ‘questione femminile’ a ‘questione maschile’ è uno dei nodi più difficili da sciogliere; non si tratta di fare nuove leggi, ma di capovolgere l’ordine del discorso, nei simboli come nei comportamenti quotidiani. Il sessismo, dal linguaggio fino ad arrivare al femminicidio, è un veleno che lambisce tutti gli ambienti sociali, nessuno escluso e che si nutre della sottovalutazione e dell’indifferenza collettiva.

La provocazione, (perché è anche questo), offerta da Manutenzioni-Uomini a nudo nel far parlare uomini che fanno proprie parole e pensieri di altri uomini sulla sessualità, sulla virilità, sulla violenza sta nel suo smuovere emozioni, rimescolare contraddizioni, aprire conflitti. Per esempio questo: nel copione è presente una frase che spesso fa discutere: “Mi vergogno di appartenere al genere maschile.”

Trovo sempre molto interessante, e importante, che sorgano spunti di polemica tra il pubblico, (o tra i manutentori) su alcuni passaggi del copione, che altro non è che la messa in scena di alcune tra le 1800 risposte date da 300 lettori del mio blog a sei domande su sessualità, virilità, pornografia e violenza maschile. 

Non sempre, ma talvolta, quella frase tra le altre suscita reazioni infastidite. “Io non mi devo vergognare di nulla,” dicono alcuni. Eppure uno dei problemi del mondo maschile, culturalmente ed educativamente parlando, è proprio questo: l’assenza di consapevolezza della propria appartenenza al sesso che fa violenza. Il non ‘sentire’, né essere persuasi, che per mettere in atto il cambiamento è necessario attraversare il deserto emotivo del fallimento che ogni violenza fatta da un uomo su una donna porta con sé.

Quella frase, pensata e scritta da un uomo, non inchioda ogni maschio in una condizione immutabile, né pronunciarla significa dichiararsi violenti soggettivamente. E’ l’inizio della presa di distanza dalla violenza, al contrario di come essa possa suonare la prima volta. Se l’inadeguatezza che il provare vergogna genera è la parte più dura da sostenere, c’è però un altro aspetto di questa emozione, quello trasformativo. Se mi vergogno sto capendo nel profondo che quel comportamento, (quelle parole, quel sistema di valori che hanno generato la violenza, quale che essa sia), va cambiato. E’ questo il passaggio che quella frase mette in moto, nell’assumere per un attimo in modo cosciente il peso di una realtà che certamente non concerne concretamente gli uomini che la pronunciano, (o che l’hanno scritta), ma che pure li riguarda come genere. Molte delle risposte alla domanda: “Cosa provi quando leggi di uomini che violentano le donne?’ sono reazioni di forte distanza: “Rabbia, repulsione, odio, schifo”, ma uno tra loro ha risposto: “Mi vergogno di appartenere al genere maschile”.

Quel ‘mi vergogno’, quell’apparente desistere e restare (sembra) immobile, è invece, io penso, il germoglio di un’assunzione di responsabilità indispensabile per entrare in contatto con chi la violenza l’ha subìta, con l’altra da sé, con il femminile.

Dopo la vergogna c’è il compatire, il condividere la sofferenza; da qui si può iniziare un cammino di empatia e quindi di mutamento.