Tra il governo italiano e la Commissione europea rimbalzo di contraddizioni e di responsabilità: un attentato allo Stato di diritto

 Negli ultimi giorni Giorgia Meloni ed altri esponenti di governo hanno cercato di smentire chi denunciava il rischio di “deportazioni” verso l’Albania, per effetto dell’attuazione, se e quando verrà, del Protocollo per le “procedure di frontiera e di rimpatrio” firmato il 6 novembre scorso con il premier albanese Edi Rama. Per la Presidente del Consiglio, non ci saranno “deportazioni” in quanto in Albania ci sarà soltanto un Centro per i rimpatri (CPR), soggetto alla giurisdizione italiana, dunque nessuna violazione del diritto interno e della normativa europea.

Nel frattempo, i media italiani hanno dato notizia che la Commissione avrebbe approvato il contenuto del più recente accordo tra Italia ed Albania, anche se in un primo momento non aveva preso posizione, limitandosi a precisare che qualunque intesa avrebbe dovuto essere “conforme al diritto comunitario e internazionale”. Conformità che, leggendo il testo dell’accordo ed i suoi allegati, appare davvero dubbia. Come rimane ignoto il contenuto degli ulteriori Protocolli operativi da negoziare con l’Albania, annunciati dal governo italiano ma su cui si lavorerà nei prossimi mesi.

Sembra che dopo una prima nota della Commissione europea, appena pochi giorni più tardi, la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson abbia dichiarato che “lAccordo Italia-Albania non viola il diritto comunitario perché ne è al di fuori”. I soliti esperti, ed i giornalisti al traino, che devono giustificare ad ogni costo le scelte del governo, hanno subito interpretato questa dichiarazione come una sorta di approvazione dell’operato di Giorgia Meloni, mentre in realtà la posizione della Johansson era molto più articolata, e per certi versi contraddittoria, in quanto la Commissaria europea aggiungeva che, “data l’appartenenza dell’Italia all’Unione e l’adozione obbligatoria di una legislazione comune, le regole che si applicheranno all’interno dei centri albanesi saranno effettivamente di natura europea e imiteranno il quadro che si applica sul suolo italiano”. Per la Johansson, “Se vengono applicate le leggi italiane, le persone dovrebbero essere esaminate secondo la legge italiana dalle autorità italiane e, dopo una decisione (positiva) sull’asilo, essere portate in Italia o, in caso contrario, riportate nel paese di origine e, se non è possibile, riportate indietro. in Italia”.

Per la Commissaria agli interni UE, “L’Italia sta rispettando il diritto dell’UE, quindi ciò significa che si tratta delle stesse regole. Ma giuridicamente parlando, non è il diritto dell’UE ma è la legge italiana (che) segue il diritto dell’UE.”. Non si riesce davvero a trovare nel Diritto dell’Unione europea attualmente vigente, e nel diritto italiano, una sola norma che autorizzi i trasferimenti forzati al di fuori dell’Unione europea ed il regime di trattenimento amministrativo in Albania, abbozzati nell’intesa tra la Meloni e il premier albanese.

In base alle contraddittorie dichiarazioni della Commissaria UE dunque, se l’accordo, ancora abbozzato e privo di dettagli operativi, tra Italia ed Albania rimane “fuori” dal diritto europeo, le norme interne che saranno adottate in Italia per rendere esecutiva l’intesa, e le prassi che seguiranno, non potranno sottrarsi al diritto dell’Unione europea ed alle norme a tutela dei diritti dei richiedenti asilo (Direttive 2013/32/UE e 2013/33/UE) e in materia di garanzie nei casi di rimpatrio (Direttiva 2008/115/CE). Perché ormai è evidente che da qui alle prossime elezioni europee sarà ben difficile che il Consiglio e la Commissione europea possano approvare nuovi atti legislativi (Direttive e Regolamenti) in attuazione di quel Patto sulle migrazioni in 10 punti che nel 2023 costituisce il punto di arrivo del fallimentare Piano sulle migrazioni e l’asilo del 2020, che imprimeva già una svolta verso una esternalizzazione più marcata delle politiche europee sulle frontiere,

Dunque, prima che l’accordo tra Italia ed Albania diventi operativo, sarà necessario adottare norme interne e prassi operative coerenti con il diritto dell’Unione europea vigente, e non con le norme di Piani di azione e Patti sulle migrazioni che mancano ad oggi di base legale. Ma anche derogando il diritto dell’Unione europea con una nuova legge nazionale non si potranno superare i limiti imposti dal diritto internazionale che vieta i respingimenti collettivi ed impone garanzie per i casi di trattenimento amministrativo.

Secondo l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, titolato “Trattati in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale (jus cogens)”, è nullo qualsiasi Trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale”. Ed è inutile che il governo giochi con la forma degli accordi, definendoli Memorandum o Protocolli d’intesa, perché se hanno contenuto politico ed implicano oneri di spesa, sono comunque accordi internazionali e vanno approvati in sede parlamentare in base all’art. 80 della Costituzione, e non possono derogare al principio di gerarchia delle fonti sancito dagli articoli 10 e 117 della stessa Costituzione.

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