“Con Api si vola”, recitava un vecchio slogan pubblicitario. Questa mattina centinaia di cittadini falconaresi con un presidio davanti alla grande raffineria hanno ribadito che di Api si muore. L’iniziativa è stata indetta dai comitati ambientalisti locali; hanno aderito i Centri Sociali delle Marche e altre associazioni del territorio, dando vita a una mobilitazione che così partecipata non si vedeva da diverso tempo.

L’occasione è stata data dalla proprietà che ha voluto festeggiare i 90 anni della nascita del sito con un evento all’interno dello stabilimento con autorità varie e persino alcune scolaresche. Di fuori in tanti e tante con fischietti a tutto spiano hanno rovinato il compleanno. Ci sono stati diversi interventi di chi  da anni lotta contro la presenza di un impianto arrivato a coprire un’area di ben 700mila metri quadrati, un mostro che è da tempo considerato uno degli impianti più pericolosi presenti sul territorio nazionale;  sorge infatti accanto a due interi quartieri, Villanova e Fiumesimo, a una città che un tempo contava trentamila abitanti, oggi circa ventimila, vede da un lato la tratta della ferrovia adriatica, dall’altro la statale adriatica e dulcis in fundo, ogni giorno decine di aerei lo sorvolano per atterrare a pochi chilometri sulle piste dell’aeroporto regionale. Insomma, una bomba innescata che nello stesso tempo appesta l’aria di tutta la zona con esalazioni che spesso provocano gravi problemi di salute e che, come vedremo, grazie a studi ufficiali, in questi anni sono stati responsabili dell’aumento dei casi di tumore.

Ma proviamo a riavvolgere il nastro e a raccontare in breve la storia di questo insediamento che inizia, appunto, nel 1933. La proprietà è della famiglia romana Peretti Brachetti, da sempre padrona della Società Api. Inizialmente il sito si estende per 17 mila quadrati ed è un deposito costiero.

A quei tempi Falconara era una località balneare con una spiaggia piuttosto grande. Poi con il passare del tempo inizia una vera e propria “guerra di conquista” e anche grazie a piani regolatori compiacenti il sito si mangia pezzi rilevanti dei quartieri confinanti, costringendoli a ridimensionarsi. Del resto siamo a fine anni Cinquanta, sta iniziando il boom economico che in poco tempo trasformerà la struttura sociale ed economica dell’Italia, che da Paese prevalentemente agricolo  diventerà industriale. La stessa Falconara si trova a scegliere: puntare sul settore turistico o sul petrolio? E la risposta è chiara, anche con la “complicità” della sinistra locale, che cede al fascino del mito di un certo tipo di industria. La città cresce, da poche migliaia di residenti arriva a trentamila abitanti, lo stabilimento occupa alcune centinaia di lavoratori, si apre un graduale scontro tra diritto al lavoro e diritto ad un ambiente sano, come accadrà a Taranto, a Cengio e altrove.

Da questo momento inizia una vicenda contrassegnata da una miriade di episodi gravi: nel 1981 prende fuoco un serbatoio con 3 milioni di litri di carburante e muore un operaio, mentre altri rimangono gravemente ustionati; nel 1986 altra esplosione, salta una condotta di desolforizzazione (ironia della sorte, un nuovo impianto proprio per evitare maggiori inquinamenti) che provoca una decina di feriti, vetri in frantumi, nonché danni a ristoranti  e bar. Altri incidenti si susseguono fino ad arrivare alla tragedia più grave di questa storia, almeno quella alla luce del sole: il 25 agosto del 1999 alle 5,37 di mattina i falconaresi e non solo, vengono svegliati da un boato, chi si affaccia alla finestra vede lingue di fuoco alte 50, 60 metri. Solo dopo più di due ore i vigili del fuoco riescono a domare le fiamme, ma sul terreno trovano due cadaveri: Mario Gandolfi, capo operaio di 54 anni e Ettore Giuliani.

Da questo momento la mobilitazione iniziata nel 1995, che fino ad allora era stata piuttosto circoscritta ai comitati dei due quartieri circostanti, fa un salto di qualità e si allarga a dismisura e la rivendicazione di bonifica di tutta l’area e la dismissione dell’impianto diventa patrimonio delle comunità del territorio (obiettivi ribaditi questa mattina). Purtroppo le organizzazione sindacali restano distanti; in nome della difesa dei posti di lavoro, peraltro nel tempo scesi di numero, non capiscono che le richieste del movimento vanno anche in questa direzione. Nel frattempo lo studio frutto di una convenzione stipulata nel 2003 tra l’Istituto Nazionale Tumori e l’Agenzia Regionale Sanitaria della Regione Marche dimostra quanto la presenza della raffineria abbia inciso sulla salute delle persone. Due anni dopo la giunta regionale con dentro Rifondazione e Verdi, di fronte alla scadenza della convenzione con l’Api illude i tanti che si augurano che possa avviarsi il processo di dismissione; invece l’accordo viene rinnovato. Ma la mobilitazione non demorde e prosegue fino ai nostri giorni, inframezzata da esalazioni nocive e proteste veementi, mentre la vicenda si sposta anche sul terreno legale con un procedimento giudiziario per possibile “disastro ambientale”. La lotta continua…