Un percorso che dal basso, puntando sin da subito sul coinvolgimento della cittadinanza, sta rivoluzionando gli spazi urbani di San Ferdinando, in Calabria. Lo sta facendo attraverso un’architettura etica, che si trasforma in bene comune e si pone l’obiettivo di creare spazi sociali che favoriscano l’aggregazione e combattano l’alienazione.

È un paese che ha a lungo scontato le scelte degli altri San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro. Il porto “di Gioia Tauro” in verità ricade nel suo territorio e così le baraccopoli abitate dagli schiavi “di Rosarno”. Si può capire perciò quanto sia urgente qui – come e più che altrove – ricostruire una visione urbana, culturale e sociale.

«Una visione – spiega il sindaco Luca Gaetano – che coinvolge la comunità. È molto maleducato che la politica prenda decisioni che cambiano la vita delle persone senza nemmeno consultarle, senza nemmeno informarle a volte. Vale tanto più nei progetti urbanistici e non vuol dire appaltare alla cosiddetta “pancia”, ma aumentare consapevolezza diffusa».

In altre parole, si tratta di riscoprire il ruolo etico dell’architettura che mette la cittadinanza e i suoi bisogni al centro. Una strategia che punta allo sviluppo di valori comuni – i cosiddetti “commons” – al fine di promuovere l’eguaglianza tra tutti i cittadini di San Ferdinando. Ma attenzione, ci mette in guardia Daniele, è necessario estendere la nozione di bene comune: «Non solo lo spazio pubblico, della piazza, del lungomare o lo spazio privato, quello domestico, culturale, educativo ma anche e soprattutto quello delle risorse economiche nel territorio. Istruzione, cibo e impegno civico sono tra gli elementi di una società sana che i modelli di sviluppo neoliberisti hanno reso scarsi e mercificati».

L’architettura sociale non è qualcosa che inizia e finisce con le case popolari, ma riguarda la costruzione e l’ideazione di spazi creati e pensati per fare stare assieme la gente e superare l’alienazione. Un concetto assai sentito negli Stati Uniti, dove la gente va al pronto soccorso per scambiare qualche parola con qualcuno. Lì un gruppo di esperti ha deciso di fare di San Ferdinando un case history. Il Comune calabrese è al centro di un lavoro scientifico di rigenerazione urbana sostenuto da un prestigioso studio americano e da docenti della Columbia University di New York, che sarà incorporato nella produzione scientifica della Columbia University e distribuito nelle scuole internazionali di architettura.

Foto di Associazione Disio

Il progetto nasce dalla collaborazione tra la sanferdinandese associazione culturale Disìo e l’Architensions Studio di New York, di cui fanno parte prestigiosi architetti, designer e professori della Columbia University di New York. E può contare sul convinto patrocinio del Comune di San Ferdinando e sulla collaborazione di numerosi partner, anche istituzionali come l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, l’Autorità portuale di Gioia Tauro, la Regione Calabria, e il Ministero della Cultura.

Niente stravolgimenti urbanistici: questo percorso non prevede solo cemento, ma meta-architetture che consentono di raggiungere il risultato sperato, ovvero avere una visione che permetta alla gente di vivere davvero i luoghi e stare insieme. Il sindaco Gaetano ci racconta un aneddoto che rende bene l’idea. Quando questi studiosi hanno avuto una commessa a Bordeaux, dopo aver studiato ed elaborato il progetto, hanno deciso di consegnare la piazza così com’era. «Ecco l’avanguardia: hanno parlato con la gente, hanno studiato la relazione tra piazza e città, tra la piazza e la gente che la vive, e hanno capito che per valorizzarla non andava toccata».

Non è questo però il caso di San Ferdinando, dove si lavora seguendo quattro valori fondamentali: il diritto ad un’abitazione, a un lavoro giusto, all’educazione e alla cura di sé. Il masterplan è già stato realizzato e qui, come altrove, parte dal presupposto che le risorse siano da riconnettere al territorio, per farlo occorre ricucire i vuoti urbani e riconnettere il tessuto interno, ripensare il rapporto con i confini (i borders concettuali); ritrovare un rapporto con il mare Tirreno, con il fiume Mesima e con le campagne; riempire i vuoti urbani, intesi non come un elemento negativo ma come un punto di forza; così gli edifici in disuso, spazi non occupati, pieni di promesse e possibilità.

«Sono concetti legati alla perdita di identità», continua Gaetano. «Siamo quello che facciamo e adesso non sappiamo più chi siamo. Siamo contadini arrivati dai casali di Tropea, perciò non abbiamo un rapporto con il mare. Mentre il rapporto con le campagne deve fare i conti con la crisi dell’agricoltura, in particolare con la coltivazione degli agrumi che è da sempre un punto di forza dell’economia locale».

Il progetto avanza. In questi giorni cinque studiosi statunitensi sono qui e lavorano insieme agli studiosi dell’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria e un comitato mutidisciplinare: progettisti, comunicatori, filosofi. Tutti si raccordano con la comunità, perché «l’intenzione resta sempre quella di non fare nulla che non sia stato condiviso con la comunità, di agire e decidere solo dopo un ascolto profondo della sue esigenze».

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