Con Andrea Ciattaglia della Fondazione promozione sociale onlus e direttore della rivista “Prospettive – I nostri diritti sanitari e sociali” affrontiamo alcuni aspetti critici della cura ai malati non autosufficienti in Piemonte

Uno dei ricorrenti motivi di allarme della sanità sono i Pronto Soccorso con attese anche di giorni per poter avere un letto in reparto, fenomeno che, secondo alcuni, è anche causato dalla difficoltà di dimissione dei pazienti a causa della mancata continuità terapeutica per questi malati, è così?

E’ stato dimostrato che la stagionalità – l’influenza, i colpi di calore… – influiscono poco sull’intasamento dei Pronti soccorso. Ben più rilevante e persistente lungo tutto l’anno è la carenza di risposte della sanità extraospedaliera, sia per prevenire l’accesso in urgenza, sia come garanzia della continuità di cure. Il risultato è un accesso ai Pronti soccorso come unica porta aperta del Servizio sanitario da parte di molti malati non autosufficienti che per anni non sono stati curati; molto spesso è il loro ultimo approdo, perché la carenza di continuità terapeutica – o, peggio, l’etichettatura come ‘casi sociali’ e quindi ‘non degni di esser curati’ – causa nei loro confronti abbandono terapeutico.

C’è, inoltre, una pratica di minaccia della dimissione da parte delle Rsa o delle Case di Cura che viene segnalata dagli utenti e anche dalle organizzazioni come la Fondazione che dà loro consulenza. È legittimo?

No, l’interruzione della continuità delle cure per i malati non autosufficienti non è mai legittima. Il malato non autosufficiente, per definizione, non guarisce. Tuttavia, ha sempre necessità di prestazioni di tutela della sua salute, che devono essere assicurate per legge dalla sanità. Se non in ospedale o in casa di cura, comunque a domicilio o in Residenza sanitaria assistenziale, dove il malato ha diritto alla copertura della metà dell’importo della retta da parte dell’Asl. È un diritto esigibile e universalistico, quindi non soggetto a valutazione Isee. Se l’Asl nega la quota, bastano poche istanze scritte per rivendicarla.

Prima di passare alla qualità dei servizi, sbagliamo qualora affermiamo che la non autosufficienza attiene anche ai servizi socioassistenziali (cioè ai Comuni)? Qual è la differenza con il servizio dell’Asl?

La non autosufficienza è l’esito delle malattie, non di non meglio specificate ‘situazioni sociali’, che di solito si fanno coincidere con quelle economiche o di ambiente famigliare. Semmai, i servizi sociali dovrebbero intervenire, com’è stabilito dalla legge, con contributi economici integrativi della retta alberghiera (o corrispondente ripartizione delle spese a domicilio) e non – come avviene oggi – nella funzione di coloro che negano l’accesso alle quote sanitarie con motivazioni socio-economiche. I geriatri che lavorano nelle strutture di lungodegenza lo dicono chiaramente: i pazienti non autosufficienti ricoverati sono sempre più gravi, ma attraverso la valutazione della loro condizione economica e famigliare, propria dei servizi assistenziali, viene negato l’accesso a servizi sanitari.

Il problema della non autosufficienza appare ormai emergenziale: ci sono pazienti temporaneamente non autosufficienti che avrebbero bisogno di strutture riabilitative e pazienti non più autosufficienti in via definitiva, in particolare gli anziani, che hanno bisogno di strutture e servizi cosiddetti di lungoassistenza. Ma sono entrambi servizi molto carenti in Piemonte, vero?

Occorre distinguere. A Torino, per esempio, la carenza di strutture di riabilitazione e lungodegenza (quasi esclusivamente private accreditate) è drammatica, tanto che le Case di cura sono tutte nella cintura, con grave danno di relazioni famigliari e sociali per i malati, che molto spesso hanno come parente più stretto il coniuge anziano, che non riesce ad andarli a trovare per tutta la durata delle cure post ospedaliere. Per quanto riguarda le Residenze sanitarie assistenziali, il punto fondamentale non è il numero dei posti letto, che è in continua crescita per gli appetiti dei gestori speculativi e viziato dal ‘nulla’ sul fronte domiciliare. Il nodo critico è che la metà dei 30mila posti letto regionali in Rsa, pur essendo convenzionabile, non è coperto dalla quota sanitaria delle Asl, quindi i degenti – tutti malati gravi – devono pagarsi di tasca loro oltre 3mila euro al mese.

Nel contesto della carenza di strutture e di sottofinanziamento di cui ci sta parlando, sembra però esserci una prevalenza del privato molto forte. Quali sono i problemi in questo senso? Quali proposte per affrontarli?

Il settore socio-sanitario residenziale – specialmente quello delle grandi strutture da oltre 100 posti, moderne ‘istituzioni totali’ di foucaultiana memoria – è appetibilissimo per il business dei privati: grande redditività, pochi controlli, qualità scarsa e comunque non rispondente ai bisogni dei malati. La politica dovrebbe perseguire da subito due strade parallele: aumento serrato dei controlli sulle strutture (che sono parte integrante del Servizio sanitario, in quanto enti accreditati) e ri-pubblicizzazione di una parte non marginale dei servizi. Anche per dimostrare che la gestione pubblica diretta, svincolata dalla pressione del ‘fare utile’ sui malati, cura meglio e con una gestione più razionale delle risorse.

Non solo i due anni di pandemia Covid, ma anche la gestione ordinaria delle RSA dimostra che c’è un problema di fondo nel livello di servizi che le Rsa riescono a garantire: troppo basso per la gravità dei malati che ricoverano. Cosa ci può dire al riguardo? E come si può operare su questo tema?

Il tema dell’aumento degli standard sanitari delle Rsa era all’ordine del giorno del Ministero della Salute con un documento di partenza redatto a giugno 2021 dalla ‘Commissione Brizioli’. Poi il tutto si è arenato, forse in favore delle inefficaci risposte del Pnrr, come gli effimeri ‘ospedali di comunità’. La necessità è quella di aumentare medici e infermieri in Rsa, di introdurre il lavoro in équipe, come negli ospedali, di inserire la fisioterapia, il recupero funzionale e piccoli esami diagnostici nella dotazione di prestazioni che una struttura può assicurare al suo interno, per conto del Servizio sanitario. Ci va un’azione della politica, ma prima di tutto una spinta degli utenti. Senza quella, le istituzioni rimangono sorde.