Davvero vivo in tempi bui.
La parola innocente è stolta. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride,
la notizia atroce
non l’ha ancora ricevuta.
Bertold Brecht, Ai posteri

 

Se questo è ciò che sentiamo, si tratta ancora di «sconfiggere il Nemico» o piuttosto di «attraversare il Diluvio»?

«Attraversare la catastrofe» è possibile senza la coscienza di ciò che l’ha generata? senza «comprendere ciò che ci schiaccia»? (Simone Weil)

Se «tempi bui» è anzitutto la perdita di senso del discorso (Hannah Arendt), l’insignificanza delle parole che si scambiano nella «scena pubblica», come cercare parole per «rimettersi in cammino»?

A cosa attingere per immaginare un esser comune che non si fondi sulla forza dell’identità, e quindi sulla creazione di un nemico? Come impegnarsi a concepire ciò che vogliamo, anche se sembra non potersi realizzare? (Simone Weil)

 

Mossi da queste tensioni si sono incontrati sabato 17 giugno esponenti del marxismo eretico, della Comunità dell’Arca, del movimento nonviolento, soggetti impegnati a vario titolo, con diversa formazione professionale e collocazione lavorativa, in una giornata di riflessione nello spazio della Fattoria sociale “Martina e Sara” nella campagna siciliana presso Segesta. Già la scelta del luogo, uno spazio accogliente risultato dal lavoro della cura della Terra, era un indizio della direzione da intraprendere per provare a pensare quelle domande sullo sfondo emotivo suscitato dalle parole di Brecht.

A fare da guida era il volume di Annibale C. Raineri Ancora. Trasformare il mondo nel tramonto della politica, edizioni Area Navarra. La riflessione si è sviluppata mettendo assieme argomentazioni logiche e vissuti personali, emozioni e sentimenti, così da favorire l’esposizione soggettiva in coerenza con lo stile adottato dal volume di incastonare fra i testi argomentativi poesie e racconti per lo più autobiografici, in un intreccio evidenziato dalle scelte grafiche del corsivo e del tondo. Scelta stilistica che è una precisa indicazione di prospettiva: non può darsi alternativa che non coinvolga l’intero della vita di ciascuno e nella quale il “partire da sé”, e non dall’universale neutro, sia il primo atto di un cambiamento di paradigma, secondo l’insegnamento del femminismo.

Punto di partenza del percorso che il libro rappresenta è una triplice rottura: 1. la perdita di senso del discorso politico, causata dalla perdita di significato determinato delle parole in esso scambiate (usate in modo indifferenziato da tuti i soggetti in campo) e quindi l’impossibilità di parlare in esso sensatamente, e quindi di agirvi, 2. il trasgressivismo morale come forma legittimata pubblicamente dal potere politico e mediatico (la vera “rivoluzione berlusconiana”), 3. la forte irruzione “visiva” degli immigrati che, oltre l’immagine della vittima dentro cui li richiudiamo, ci costringe  a cambiare lo sguardo sul mondo, assumendo l’umanità in quanto tale come centro a partire dal quale riordinare concettualmente il proprio universo simbolico.

Queste tre rotture rendono impossibile continuare a pensare le pratiche alternative con le categorie della politica otto-novecentesca, ed impongono la necessità della costruzione di un nuovo universo simbolico oltre l’ambito ristretto della politica, oltre il suo orizzonte concettuale e pratico.

Se quindi da un lato è necessario riprendere l’analisi della struttura di dominio del capitale (segnatamente della forma-denaro quale principale forma delle relazioni sociali, ed il volume lo fa indicando le tre direttrici: prevalere della dimensione del consumo nel rapporto del soggetto col mondo, virtualizzazione della vita, finanziarizzazione dell’economia), dall’altro è necessario allargare l’orizzonte storico di riferimento, in quanto è oggi in questione non solo il suo potere totalizzante ma l’intero arco di cinquemila anni, segnato dal dominio patriarcale e dal paradigma della guerra (non semplice espressione di una tendenza innata alla violenza, ma specifica forma di legame sociale). Catastrofe ecologica e sociale, potere perverso post-patriarcale e bomba atomica sono i nomi delle crisi simultanee di tre cicli storici: tempo del capitale, tempo del patriarcato, tempo della guerra.

Se il quadro strutturale ha tali dimensioni, come non lasciarsi travolgere dal senso di impotenza? da dove ricominciare per costruire un universo simbolico, e quindi delle pratiche di vita, che invertano una direzione del tempo così lungamente consolidata? L’autore indica quello che è stato il suo cammino, gli incontri che hanno aperto, per lui, una diversa direzione dopo i lunghi anni, non rinnegati, d’impegno nelle formazioni della “sinistra rivoluzionaria” e nelle pratiche della “sinistra sindacale”: da un lato l’incontro con il pensiero nato dalla irruzione dei corpi e della parola delle donne nello spazio pubblico, e dall’altro l’incontro con la Comunità dell’Arca fondata da Lanza del Vasto in Francia nel 1948.

Dalla pratica e dal pensiero femminista l’autore impara, oltre la critica del patriarcato e del dominio maschile (non sono la stesa cosa): 1. la centralità della relazione come forma di costruzione di un noi non fondato, come nelle pratiche politiche maschili, sulla identificazione ideale, 2. la consapevolezza del limite e quindi la necessità di abbandonare l’onnipotenza propria del soggetto moderno da un  lato, e dall’altro la coscienza del debito che deriva dall’esser nati da donna, 3. il partire da sé come ancoraggio del pensiero al proprio essere singolare-corporeo, 4. l’idea di libertà come pratica di libertà e non come costituzione di un diritto, terreno sempre ambiguo e, in ultima istanza, che rimanda all’esercizio di un potere-violenza.

Fra i tanti testi di riferimento dell’autore, un posto particolare ha Cassandra, di Christa Wolf, perché da un lato segna un punto di svolta nel suo cammino, e, dall’altro, è punto di congiunzione fra lo sguardo di donna sull’universo patriarcale al suo formarsi, connesso alla costituzione del paradigma della guerra come modo di strutturazione dello spazio sociale, e dall’altro la coscienza della necessità di sottrazione, per costituire “fuori le mura” (la comunità dello Scamandro, nel racconto della Wolf) un luogo di comunità, prevalentemente di donne ma non solo, impegnate a vivere, “non a uccidere o essere uccise”, alla custodia della vita, al lavoro con le mani, e, col lavoro delle mani che trasformano l’argilla, a lasciare un segno “a coloro che verranno”, l’indicazione di un’altra possibile scelta, un’altra possibile forma di vita. Cassandra così è stato punto di passaggio fra lo “sguardo di donna” e l’incontro con le esperienze comunitarie nonviolente dell’Arca fondata da Lanza del Vasto, secondo incontro di ispirazione dell’autore.

Le comunità dell’Arca sono infatti il tentativo (uno dei tanti) di rispondere al bisogno (desiderio ed insieme necessità) di costruzione di forme di vita sottratte alla violenza, al dominio ed all’alienazione (prima fra tutte l’alienazione prodotta dalla accelerazione estrema del tempo e dalla sua omogeneizzazione). Tratti fondamentali, sui cui si sofferma lungamente il libro, sono: 1. l’importanza del lavoro, (anzitutto il lavoro delle mani: “se non fatichi c’è qualcuno che lo fa al tuo posto”), sottratto alla servitù del denaro ed inteso come “servizio ali fratelli”, che, confrontandosi con la resistenza dell’oggetto, favorisce l’esperienza della unità del proprio essere (corporeo intellettuale, spirituale) e produce, insieme alla trasformazione dell’oggetto, la trasformazione del soggetto, 2. la centralità della relazione come dimensione primaria dell’essere e quindi del vivere e del vivere insieme, da cui deriva la costruzione di un noi fondato su di essa e non sull’identificazione, e quindi una dimensione comunitaria che viva delle differenze e non dell’esser-uno, 3. il lavoro su di sé perché trasformare il mondo è possibile solo a partire dalla trasformazione di se stessi, dalla ricerca di coerenza tra ciò che si desidera per gli altri e la forma del proprio agire, 4. la cura delle relazioni con chi si ha accanto, cercando di costruire un tessuto comunitario di cui prendersi cura con metodicità, 5. la cura del tempo, imparando a riscoprirne la natura qualitativa, fatta di tempi di lavoro, tempi di festa, tempi di ritiro in se stessi e tempi dell’azione (le lotte nonviolente per la giustizia degli uomini e dei viventi), 6. cura della Terra, attraverso il lavoro in comune che, prendendosi insieme cura di un luogo, riscopre il legame fra dimensione comunitaria e reciproca appartenenza (e dipendenza) al mondo.

L’Arca non è presentata come un modello, nell’illusione che il suo espandersi per meccanismi mimetici possa produrre la “trasformazione del mondo” (i problemi sono sistemici, strutturali), ma un luogo di sperimentazione di forme di vita in comune che possa favorire la generazione di un altro universo simbolico.

In questa prospettiva la nonviolenza cessa di essere mera tecnica di “gestione di conflitti”, e diventa una pratica trasformativa che spinge a vivere i conflitti, prossimi o lontani (non a fuggirli), sfuggendo alle trappole sistemiche dei ruoli assegnati in anticipo. Essa diviene spinta a “uscire dalle nostre case, dalle nostre comunità, essere presenti accanto ai tanti in movimento animati da un’irriducibile sete di giustizia” come scrive l’autore nelle ultime pagine.

J. Th.

J. Th. sta per Johannes Theologos, l’autore mitico dell’Apocalisse che conclude il libro sacro dei cristiani, il vecchio che ha la visione mentre ormai centenario vive isolato nell’isola di Patmos