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L’Italia non si taglia-a-striscia. È  ancora troppo poco conosciuta  l’Autonomia regionale differenziata, eppure è  destinata a cambiare per sempre il destino del nostro Paese e dei suoi abitanti

Il  disegno di legge Calderoli, “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”,  è approdato alla Commissione Affari Costituzionali del Senato e procede speditamente nel suo percorso. Un percorso che parte da lontano, dalla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001,  ma che con l’attuale Governo rischia di concludersi in pochi mesi, portando a compimento quello che è forseil più grave e irreversibile attacco alla nostra Costituzione, ai suoi valori di uguaglianza e solidarietà e all’unità della Repubblica. Da tempo sappiamo che il regionalismo differenziato, che secondo il ministro Calderoli dovrebbe valorizzare le peculiarità dei territori, è in realtà un micidiale strumento di divisione e di disuguaglianza. E non si tratta solo della ingiusta ridistribuzione delle risorse e delle inevitabili differenze nei servizi – anche con i famosi LEP Livelli Essenziali delle Prestazioni, che per l’appunto non garantiscono prestazioni omogenee già dalla definizione anche se fossero introdotti – ma della distruzione dell’identità comune, così faticosamente raggiunta da una nazione di soli centocinquant’anni, che ha saputo riconoscersi e affrancarsi grazie alla sua straordinaria Costituzione. Se l’autonomia diventerà realtà, non renderà solo incolmabile la distanza tra il ricco nord e il povero sud, ma consegnerà ciò che il nostro Paese ha di più prezioso – l’ambiente, i beni culturali, la scuola, la cura delle persone – alle maggioranze politiche regionali del momento, che potranno piegarle a ideologie e convenienze, deciderne privatizzazioni, usarne il potere per estrarre consenso. Non ci vuole molta immaginazione: basta guardare, dietro al velo squarciato dalla pandemia, come è stata ridotta la sanità anche nelle ricche regioni del nord. E si tratterà  di una scelta irreversibile: una volta smontato lo Stato, divise le competenze, attribuiti gli edifici, avviate le assunzioni del personale, non si potrà più tornare indietro. L’Italia sarà definitivamente divisa in tante piccole repubbliche con leggi e regole diverse, guidate da potentati che su una enormità di materie potranno decidere i destini dei territori, dei lavoratori, delle persone, senza alcun ente sovraordinato come contrappeso e garante del destino comune. E i  cittadini si accorgeranno delle conseguenze solo dopo il punto di non ritorno dell’approvazione. Per questo è urgente portare il tema al centro del dibattito pubblico, mobilitando tutte le persone e le forze politiche e sociali  in una incessante campagna di informazione.

Carteinregola dal 30 maggio realizza, in collaborazione con Articolo 21, una striscia quotidiana di 15’, dalle 19.30 alle 19.45 dei giorni feriali, in diretta Facebook e Youtube e successivamente diffusa con video e podcast.  Ogni sera incontro con una voce autorevole, della politica o della  società civileper parlare dei rischi, delle posizioni e degli impegni per creare un fronte non solo “virtuale” che, pur nelle varie articolazioni e provenienze,faccia sentire la sua voce in  difesa dei diritti delle cittadine e dei cittadini, del patrimonio e dell’identità comune  [vedi il calendario ]

 

Il capitalismo sta prosciugando il pianeta e le persone: diminuzione del 53% delle riserve idriche in 30 anni

Secondo un nuovo studio pubblicato su Science, il 56% dei serbatoi di acqua dolce e il 53% dei laghi hanno perso volume in tre decenni. Una crisi che impatterà pesantemente sull’accesso all’acqua delle popolazioni dei paesi sotto dominazione, e che è il risultato di politiche consapevoli e distruttive per i profitti dei datori di lavoro. Il 56% dei serbatoi di acqua dolce e il 53% dei laghi hanno perso volume in tre decenni. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Sciences il 18 maggio, la tendenza di essiccazione globali risulta più ampie di quanto si pensasse:  copre circa 2000 grandi laghi e bacini, rappresentativi del 96 e dell’83% delle riserve idriche presenti in laghi e bacini a scala terrestre. L’evoluzione dei loro livelli nel periodo 1992-2020 è stata stimata da un team internazionale di scienziati utilizzando osservazioni satellitari e modelli idrologici. I risultati sono conclusivi e confermano le tendenze già osservate sulla riduzione delle riserve idriche su scala globale: la quantità di acqua persa da queste distese nel periodo ammonta a oltre 20 milioni di tonnellate all’anno. In volume cumulativo, questa quantità rappresenta quindi più di 600 chilometri cubi di acqua, o l’equivalente del consumo annuo totale degli Stati Uniti. In cima alle cause di questi declini, il cambiamento climatico e l’innalzamento della temperatura che esso comporta, nonché il “consumo umano” di acqua. Le perdite idriche sono concentrate prevalentemente nelle aree del cd. “Sud del Mondo” (Asia centro-occidentale, India occidentale e Medio Oriente, Africa e Sud America). Un quarto della popolazione vive in una regione dove le riserve stanno diminuendo con conseguenze drammatiche sull’accesso all’acqua: L’87% dell’acqua dolce liquida superficiale è immagazzinata nei laghi, la tendenza al ribasso del loro livello ha quindi un gran numero di conseguenze: su alcuni tipi di colture irrigue, sulla produzione di energia idraulica, sulla biodiversità o sulla capacità della Terra di assorbire le emissioni di gas serra. I ricercatori indicano così “un calo diffuso del livello di stoccaggio dei laghi, in particolare accompagnato da un aumento delle loro temperature, potrebbe ridurre la quantità di anidride carbonica assorbita e aumentare le emissioni nell’atmosfera poiché i laghi sono punti centrali del ciclo del carbonio”. Ma le conseguenze più dirette e mortali sono indubbiamente sulla questione dell’accesso delle persone all’acqua. In effetti, più di 2 miliardi di persone non hanno un accesso sicuro all’acqua potabile e il numero di decessi associati è stimato a 1,2 milioni all’anno.

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Appello dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole 

Di fronte al costante incremento delle spese militari e della circolazione di armi in un  contesto internazionale nel quale la guerra nucleare si profila purtroppo come possibile  nefasto orizzonte, ci prefiggiamo da oggi una decisa e costante attività di denuncia di  quel processo di militarizzazione delle nostre istituzioni scolastiche già in atto da  molto, troppo tempo. Le scuole stanno sempre più diventando terreno di conquista di  una ideologia bellicista e di controllo securitario che si fa spazio attraverso l’intervento  diretto delle forze armate (in particolare italiane e statunitensi) declinato in una miriade  di iniziative tese a promuovere la carriera militare in Italia e all’estero, e a presentare  le forze armate e le forze di sicurezza come risolutive di problematiche che pertengono  alla società civile. Questa invasione di campo vede come protagonisti rappresentanti delle forze militari  addirittura in qualità di “docenti” che tengono lezioni su vari argomenti (dall’inglese  affidato a personale NATO a tematiche inerenti la legalità e la Costituzione) e arriva a  coinvolgere persino i percorsi di alternanza scuola-lavoro (PCTO) attraverso  l’organizzazione di visite a basi militari o caserme. Il tutto suffragato da protocolli di  intesa firmati da rappresentanti dell’Esercito con il Ministero dell’Istruzione, gli Uffici  Scolastici Regionali e Provinciali e le singole scuole. Riteniamo molto grave che tali attività vengano presentate mascherando quella che è la vera natura della forza militare, nel tentativo di creare consenso attraverso un utilizzo  improprio e fuorviante di valori quali “coraggio”, “orgoglio” e “forza” o di idee astratte  quali “difesa della patria” e “missioni di pace”. È oltremodo preoccupante il livello di collaborazione che molti atenei italiani  intrattengono con l’industria bellica attraverso cospicui finanziamenti alla ricerca o la  sottoscrizione di protocolli tra università pubbliche e forze armate. L’intreccio è  talmente forte che nel comitato scientifico della fondazione di Leonardo “Medor”  troviamo ben 16 rettori delle università italiane. Il ruolo che la scuola riveste non è in alcun modo compatibile con l’ideologia brutale  che sta alla base di ogni guerra: questo processo di militarizzazione promuove pratiche antitetiche a qualsiasi effettivo e sano processo educativo. “Smilitarizzare” le scuole e l’educazione vuol dire rendere gli spazi scolastici veri  luoghi di pace e di accoglienza, opporsi al razzismo e al sessismo di cui sono portatori  i linguaggi e le pratiche belliche, allontanare dai processi educativi le derive  nazionaliste, i modelli di forza e di violenza, l’irrazionale paura di un “nemico” (interno  ed esterno ai confini nazionali) creato ad hoc come capro espiatorio. “Smilitarizzare”  la scuola vuol dire restituirle il ruolo sociale previsto dalla Costituzione italiana. Crediamo nel ruolo fondamentale della scuola come laboratorio dove costruire insieme a bambine/i e ragazze/i una società di pace e di diritti per tutte/i, e pertanto chiediamo  a dirigenti scolastici, insegnanti, educatori/educatrici, studenti/esse, intellettuali,  cittadine/i di aderire all’ Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole firmando  questo appello e dichiarando la propria scuola luogo di pace, accoglienza e rispetto. Chiediamo anche di farsi parte attiva nella denuncia che porteremo avanti, territorio  per territorio, di ogni intervento nelle scuole da parte delle forze militari e di sicurezza  e di ogni uso improprio delle strutture scolastiche. Chiediamo di partecipare a  un’azione coerente di informazione e di mobilitazione per estromettere la cultura della  guerra dal mondo della scuola.

adesioni

 

Dossier-Ponte, il progetto non supera le criticità: questioni tecniche, naturalistiche, economiche e paesaggistiche rendono insostenibile la realizzazione dell’opera

“L’approvazione del decreto legge voluto dal governo che rilancia il progetto del 2011 del ponte ad unica campata sullo Stretto di Messina non supera le criticità di fondo sollevate dagli ambientalisti sulla insostenibilità dal punto di vista ambientale, economico-finanziario e sociale dell’opera. Un’opera dal costo elevatissimo e ingiustificato (14,6 miliardi di euro, quasi un punto di PIL), di cui non è stata ancora dimostrata la costruibilità e non è finanziata, che si vuole realizzare con una procedura di Valutazione di Impatto Ambientale addomesticata e bypassando l’obbligo di gara per l’affidamento al general contractor”. Questa premessa inquadra l’articolato dossier “Lo Stretto di Messina e le ombre sul rilancio del ponte” elaborato dagli specialisti chiamati a raccolta da Kyoto Club, Lipu e WWF, grazie ai contributi  dei quali  sono state individuate le principali questioni rimaste irrisolte. I capitoli del dossier approfondiscono i temi centrali che dimostrano l’insostenibilità dell’opera: dubbi sulla fattibilità tecnica, analisi economico aleatoria sui costi e le entrate, approssimazione logistica (vedi  il “franco navigabile”), le ricadute sull’occupazione, anti-economicità dei flussi del traffico, senza contare i  dubbi di legittimità costituzionale sollevati dai giuristi. Ma quel che vogliamo mettere in evidenza in questa sede sono gli aspetti critici riguardanti la valutazione di impatto ambientale, il valore naturalistico e paesaggistico. Sostengo gli esperti: 1) la procedura di valutazione di impatto ambientale va rifatta dal principio visto che come viene stabilito nel Codice dell’ambiente, sono passati oltre cinque anni senza che il progetto sia stato realizzato e il provvedimento VIA deve essere reiterato nel rigoroso rispetto dell’art. 9 della Costituzione che tutela il paesaggio, l’ambiente e l’ecosistema; 2) sotto l’aspetto della valore naturalistico, la creazione di una barriera trasversale, qual è il ponte, alla migrazione e la distruzione di aree di sosta e alimentazione contrasterebbe nettamente con la responsabilità di conservazione degli uccelli migratori; 3) nel progetto definitivo del ponte sullo Stretto di Messina, osservano gli ambientalisti, manca dal punto di vista paesaggistico una visione olistica che consideri la armatura eco-paesaggistica dell’intera area e non c’è alcun rispetto dei vincoli e prescrizioni esistenti dettati dalla pianificazione territoriale locale (Guida del Piano Territoriale Paesaggistico Regionale della Sicilia, Piano d’Ambito 9 del messinese, Quadro territoriale Regionale Paesaggistico della Calabria) che, d’altra parte, non contempla la realizzazione del ponte. I quasi 1,5 milioni di metri quadri di paratia verticale costituiti dal sistema Piloni-Trave-Asse di attraversamento rompono l’unitarietà e la continuità scenografica del contesto dello Stretto con un impatto estetico-percettivo e ambientale dai profondi risvolti sociali, collettivi e individuali.

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Associazione Sindacale per il Diritto all’Abitare 12 Luglio: “Sospendere tutti gli sgomberi! No alla legge Lupi-Renzi: riconoscere la residenza anagrafica a tutte quelle famiglie alle quali viene negata perché occupano spazi abbandonati”

Non si potrà realizzare in pochi mesi ciò che non è stato fatto negli ultimi 20 anni. Rispetto al problema casa e, nello specifico, all’emergenza abitativa, è stato fatto molto poco. Anzi, per certi versi sono stati creati dei paletti che diventano un ostacolo per le famiglie che vivono gravi disagi abitativi. Rendere aggiornabile annualmente la graduatoria d’emergenza abitativa è stato un grave errore, una graduatoria si può definire d’emergenza se dà la possibilità a chi rischia di finire per la strada di trovare accoglimento in qualunque momento si verifichi il problema, l’aggiornamento annuale è un pugno allo stomaco di tutte quelle famiglie che vivono gravissimi disagi abitativi e che sono obbligate ad aspettare il mese di Settembre di ogni anno prima di poter essere inserite in graduatoria d’emergenza abitativa. Basterebbe una modifica al regolamento per rendere la graduatoria d’emergenza abitativa sempre aggiornabile. Siamo convinti che, se c’è un minimo di volontà politica, l’amministrazione comunale potrebbe intervenire in tempi brevissimi, per altro si tratterebbe di interventi a costo zero e che darebbe o una grande boccata d’ossigeno alle famiglie, soprattutto a tutte quelle famiglie che per estrema necessità hanno occupato immobili di proprietà comunale che versavano in condizioni di abbandono da oltre un decennio. Le prime due questioni urgenti sulle quali intervenire: 1) BISOGNA UFFICIALIZZARE LA SOSPENSIONE DI OGNI SGOMBERO, visto l’acuirsi delle condizioni di povertà che colpiscono oltre il 30% della popolazione, soprattutto dopo la pandemia; 2) -RICONOSCERE LA RESIDENZA ANAGRAFICA A TUTTE QUELLE FAMIGLIE ALLE QUALI VIENE NEGATA PERCHÈ  OCCUPANO SPAZI ABBANDONATI. Sospendere gli sgomberi sarebbe un atto di responsabilità dal momento in cui oltre 1700 famiglie rischiano di essere sgomberate, quindi di finire per strada. Riconoscere la residenza anagrafica significa riconoscere il diritto di cittadinanza che quel maledetto piano casa Lupi-Renzi del 2014 ha, di fatto, tolto a centinaia di famiglie povere che, non avendo una casa e non avendo una risposta concreta dalle istituzioni, hanno deciso di occupare immobili di proprietà comunale abbandonati e, spesso, fatiscenti, per altro intervenendo direttamente nel renderli abitabili, realizzando all’interno di essi delle vere e proprie case.

comunicato/AssociazioneSindacaleDirittoAbitaredodiciLuglio

 

Coordinamento Agroecologia: come tutelare l’immensa biodiversità della Sicilia

La terra di Sicilia è, probabilmente, uno dei luoghi più unici che rari che esista al mondo e, quasi sempre, chi ci è nato e la abita non se ne rende conto. Questa consapevolezza, purtroppo è più rara di quanto si pensi e solo poche persone, ricercatori, studiosi, appassionati, innamorati di questa terra ne colgono l’unicità; tra questi… Renzino Barbera, vero ed autentico poeta della sicilianità, il quale scrisse in proposito: “… il sesto giorno, Iddio, compì la sua opera e lieto d’aver creato tanto bello, prese la terra tra le mani e la baciò, là dove lui posò le labbra è la Sicilia ”; ogni commento ci sembra superfluo. Ma da dove viene tanta bellezza, sicuramente dall’essere al centro di quel mare Mediterraneo crocevia storico di popoli, tradizioni, arte, storia, speranza […]. Pur tuttavia c’è un patrimonio tra i patrimoni che dobbiamo far comprendere non solo ai milioni di turisti che ogni anno vengono a farci visita ma soprattutto ai suoi abitanti ed, in particolar modo, ai giovani e, quindi, alle future generazioni. È il patrimonio della biodiversità. Per comprendere la grandezza ed importanza di questo patrimonio si tenga conto che nel panorama europeo, l’Italia è il Paese che, in assoluto, presenta il più alto numero di specie: ospitiamo circa la metà delle specie vegetali e circa un terzo di tutte le specie animali attualmente presenti in Europa. All’interno dell’Italia la Sicilia, insieme alla Sardegna, guida la classifica nazionale della biodiversità, confermandosi isola delle meraviglie, staccando di netto l’altra ricchissima isola italiana. Volendo dare delle informazioni molto sintetiche basti pensare che in Sicilia la fauna è stimata in oltre 58.000 specie, di cui circa 55.000 di Invertebrati (95%), 1812 di Protozoi (3%) e 1265 di Vertebrati (2%), con un’incidenza complessiva di specie endemiche pari a circa il 30%.
Per quanto riguarda invece la flora sono presenti 3252 taxa specifici e infraspecifici, nativi, avventizi e naturalizzati, suddivisi in 880 generi e 134 famiglie. Dunque nonostante la forte antropizzazione e il degrado degli ecosistemi naturali, la flora sicula si presenta ancora sorprendentemente ricca grazie alla notevole varietà di ambienti, bioclimi, tipologie di suoli e rocce, configurazioni orografiche, etc. Ricordiamo che la biodiversità rappresenta un patrimonio di informazioni, di energia e di materia vivente che, se persa, rischia di compromettere la stessa vita umana e i suoi equilibri geopolitici. È qualcosa su cui ancora poco riflettiamo e nel cui campo il mondo della politica fa pochissimo o niente. Eppure qualcosa inizia a muoversi. Basti pensare che in questi giorni è nato il primo centro di ricerca italiano dedicato alla biodiversità: il National Biodiversity Future Center, che prende il via con 300 milioni di euro e 1.300 ricercatori. Questo centro è coordinato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, è uno dei cinque centri nazionali istituiti nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza: Fra i temi dei quali si occuperà, ci sono le strategie per affrontare la crisi climatica e quelle per le specie aliene invasive, il recupero degli ecosistemi degradati e lo studio delle specie in pericolo. Il Centro avrà inoltre l’obiettivo di comprendere e affrontare i fattori connessi al declino della biodiversità a livello marino, terrestre e urbano, e di valorizzare la biodiversità per farne una grande occasione di sviluppo economico.

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