Nei pressi delle foreste pluviali e sui monti situati tra il Brasile settentrionale e il Venezuela meridionale abitano le tribù degli Yanomami, le quali ad oggi contano un totale di all’incirca 38.000 membri tra donne, uomini, bambine e bambini. Il viaggio che ha permesso loro di varcare le soglie del Sud America è iniziato 15.000 anni fa in Asia.

La comunità degli Yanomami

Quella che per molti rappresenta una mera comunità di indigeni, è un gruppo in cui a ciascun membro sono affidati compiti ben precisi: le donne si dedicano alla coltivazione degli orti e gli uomini al procacciamento della selvaggina; la pratica della pesca, invece, non è tradizionalmente rivestita dalla simbologia dei ruoli gerarchici.

Le famiglie vivono all’interno di case comuni, ognuna delle quali ha una capienza talmente ampia da poter ospitare all’incirca quattrocento persone, che nel tempo extra-lavorativo si dedicano alle danze, alle cerimonie e ai giochi; a delineare lo spazio di appartenenza di ciascun nucleo familiare, le amache.

La violenza

Molteplici sono stati i casi di violenza sistemica realizzata ai danni del popolo degli Yanomami, da diversi anni privati dei propri diritti di residenza e maltratti all’interno di uno spazio per loro sicuro e confortevole.

Tra gli anni Quaranta e Settanta, il governo brasiliano avviò un processo di delimitazione della frontiera con il Venezuela e poi procedé alla delineazione di una strada attraverso l’Amazzonia e lungo il confine settentrionale, causando una rapida diffusione di epidemie malariche, permettendo una vasta importazione di bevande alcoliche e facilitando l’entrata nel territorio dei coloni invasori. Ma è stato negli anni Ottanta che gli Yanomami hanno subito la più terribile delle ingiustizie: l’ingresso e la permanenza nel loro territorio, attraverso pratiche illegali, di gruppi di cercatori d’oro brasiliani, i quali hanno causato molteplici casi di decessi da avvelenamenti e hanno perpetuato forme di aggressioni fisiche.

A fermare il susseguirsi di eventi tanto drammatici non fu sufficiente neppure la firma della legge internazionale Convenzione ILO 1969, la cui non osservanza spinse il governo brasiliano a sancire la non attribuzione agli Yanomami del diritto alla proprietà collettiva della terra. Infatti, nonostante la Costituzione del 1988 dovesse garantire alle popolazioni indigene il rispetto della propria autonomia e la salvaguardia dei diritti fondamentali, gli stessi sono stati loro negati in favore della realizzazione di sfruttamenti territoriali. Ancora oggi, i cercatori d’oro lavorano nella terra degli Yanomami permettendo il dilagarsi di malattie mortali.

Fiumi, foreste e animali marini rappresentano le prime vittime dell’inquinamento da mercurio, di cui a risentirne sono anche i popoli residenti nelle vicinanze dei siti minerari. A pagare le conseguenze di questa crisi sanitaria, definita dal rieletto Presidente Luiz Inácio Lula da Silva un vero e proprio genocidio, sono anche i bambini sotto i cinque anni, il cui tasso di mortalità per malnutrizione è in rapida crescita.

Il Parco Yanomami

Poco prima del 1993 David Kopenawa Yanomami in associazione alla Survival International e alla Commissione Pro Yanomami realizzarono la costruzione di una terra brasiliana ad esclusiva proprietà del popolo tribale. Il Parco, denominato Parco Yanomami, vietava l’ingresso ai cercatori d’oro, i quali, tuttavia, si resero responsabili dell’omicidio nel villaggio Haximú di 16 Yanomami, tra cui un neonato: se su cinque di loro pesa l’accusa di colpevolezza, i restanti autori della tragedia risultano latitanti.

L’indagine dei confronti di Bolsonaro

Dalle ricerche svolte, sembrerebbe che sia stato l’ex Presidente Bolsonaro a raccomandare e finanziare la costruzione di paesaggi, percorsi stradali e piste aree illegali, impedendo alle equipe mediche di intervenire e procedere a percorsi terapeutici nei confronti delle vittime. Un evento che, secondo la stampa brasiliana, ha spinto la Polizia federale ad avviare nei confronti dell’allora rappresentante del Brasile un’indagine per genocidio.

Luiz Inácio Lula da Silva

Dichiaratosi pubblicamente intenzionato alla risoluzione dell’emergenza in atto, il Presidente Lula da Silva, affiancato dalla Ministra dell’ambiente, ha permesso l’attivazione di un mandato volto all’espulsione dei garimpeiros, i cercatori d’oro, dalle terre indigene. Una decisione che sembrerebbe essere in linea con quanto già affermato dalla United Nations Conference on Environment and Development, secondo cui l’uso delle risorse forestali non debba coincidere con l’inapplicabilità degli obblighi relativi alla protezione ambientale e allo sviluppo socio-economico degli individui.

Arianna Lombardozzi

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