Grandi quantità, scarsa qualità e molto inquinamento. È questa, in estrema sintesi, la formula dell’allevamento intensivo. Un modello che ha mostrato la corda quando si sono cominciati a misurare nell’acqua, nella terra e nell’aria gli impatti dell’inquinamento prodotto da queste “fabbriche di carne”. Un modello che si è rivelato un boomerang quando si è scoperta la crescita della resistenza agli antibiotici (10 mila morti l’anno in Italia, 33mila in Europa) usati in maniera eccessiva e inappropriata negli allevamenti intensivi.

Per fortuna da qualche anno a questa parte si fa sempre più strada il riconoscimento della complessa interconnessione tra la salute delle persone, delle piante, degli animali e del pianeta ed è ormai unanimemente acclarato che la situazione degli allevamenti intensivi oggi è insostenibile sotto tutti i profili: dal punto di vista climatico, perché agricoltura, allevamento e gestione del suolo sono responsabili di un quarto delle emissioni serra globali; dal punto di vista degli spazi disponibili, perché l’industria zootecnica occupa, direttamente e indirettamente, il 30% delle terre emerse del nostro pianeta non ricoperte dai ghiacci; dal punto di vista dell’inquinamento, perché in Italia gli allevamenti intensivi sono responsabili di oltre il 75% dell’ammoniaca immessa nell’ambiente, cioè danno un contributo importante all’aumento delle polveri sottili che uccidono ogni anno più di 50 mila persone nel nostro Paese (siamo secondi nell’Unione Europea per numero di morti premature da inquinamento atmosferico).

Occorre ridurre fortemente il consumo di carne, per motivi di salute e per limitare gli impatti ambientali degli allevamenti. Ma a fare la differenza è anche la qualità: molti studi e ricerche certificano che i contenuti nutrizionali variano molto in relazione alla modalità di allevamento. Secondo i risultati di una recente metanalisi, la carne di manzo biologica aveva il 17% in meno di colesterolo, il 32% in meno di grassi, il 16% in meno di acidi grassi, il 24% in meno di acidi grassi monoinsaturi.

Bisogna passare da un modello intensivo a uno basato sul biologico e sull’agroecologia. E in questa svolta il punto più critico è l’allevamento, perché è il comparto che pone il problema maggiore sia per l’inquinamento che per la salute. Bisogna cambiare. E bisogna farlo in fretta .

Stamani, 4 febbraio, in occasione della seconda Festa del Bio, che si tiene a Milano, è stato presentato il nuovo quaderno di Cambia La Terra: “Allevamenti. Sostenibile non basta: il modello è quello del bio, un testo che definisce lo stato degli allevamenti in Italia e che fa proposte innovative affinché ci sia un nuovo metodo produttivo per la zootecnia. Il Quaderno, redatto con i contributi di tutte le Associazioni di Cambia la Terra, ISDE Medici per l’ambiente, Legambiente, Lipu, Slow Food e WWF, fa il punto sull’impatto degli allevamenti in Italia e pone degli obiettivi concreti.

Non c’è solo l’inquinamento delle acque. L’agricoltura, come si diceva, è la principale fonte di emissioni di ammoniaca, a causa della zootecnia e del trattamento dei relativi effluenti e, in misura minore, dell’uso di fertilizzanti. L’Italia è il quarto Paese emettitore di ammoniaca dopo Francia, Germania e Spagna, le emissioni stimate nel 2020 ammontano a 363.000 tonnellate. Ma l’ammoniaca non impatta solo sulla qualità dell’acqua, ma anche sull’inquinamento dell’aria: l’ammoniaca è tra i responsabili della formazione di polveri sottili e ormai – secondo i dati riportati nel Quaderno – in Pianura Padana il loro contributo è pari a quello prodotto dal traffico stradale.

Da tempo il settore del bio ha avviato un percorso affinché ci sia un cambio di passo anche negli allevamenti biologici. Per questo ha deciso di puntare su un’interpretazione avanzata del regolamento europeo sul biologico, definendo lo Standard High Welfare”, un modello di allevamento che tenga conto del benessere degli animali, ma anche della conservazione della biodiversità, della valorizzazione delle razze locali e degli allevamenti di piccola scala, importanti per la rivitalizzazione dei territori interni.

Certo, le istituzioni e le politiche non hanno ancora assunto la svolta necessaria. Nel Piano Strategico nazionale della PAC i fondi stanziati andranno in massima parte alla riduzione degli antibiotici, ma gli allevamenti biologici non ne fanno uso e quindi non li potranno ‘ridurre’. “Si determina il paradosso per cui, ancora una volta, la zootecnia intensiva rischia di essere premiata con i fondi pubblici più di quanto potrà esserlo quella bio e l’allevamento al pascolo. Una check-list studiata sul sistema intensivo di grande dimensione e che non consente di registrare il livello di benessere nei piccoli allevamenti e nell’estensivo”, denunciano le Associazioni di Cambia la Terra. “Abbiamo pochi allevamenti bio, per questo è importante che la politica intervenga per dare la possibilità al settore di accedere ai fondi pubblici che, ad oggi, sono molto più accessibili agli allevamenti a larga scala”, sottolinea la presidente di FederBio, presentando il Quaderno. E questo in presenza di una crescente domanda di carne bio che al momento non trova sufficiente copertura da parte dell’offerta nazionale, come sottolinea un documento Ismea, l’ente di ricerca sul mercato agricolo.

Quello che emerge dal Quaderno è invece un approccio in linea con le strategie europee del Green Deal e che avvia un nuovo percorso virtuoso per quanto riguarda l’allevamento di animali. Un tipo di allevamento che – secondo le associazioni di Cambia La Terra – deve essere indicato in modo chiaro in etichetta, affinché i cittadini abbiano la possibilità di fare delle scelte in modo consapevole.

Qui il Quaderno completo di Cambia La Terra 2023: https://www.cambialaterra.it/wp/wp-content/uploads/2023/02/Quaderno-CLT-2023_digital.pdf?utm_source=sendinblue&utm_campaign=CLT%20Quaderno%20Benessere%20animale&utm_medium=email.