Molti non lo sanno, ma il termine “linciaggio” deriva dalle abitudini impunite di farsi giustizia senza processi o corti negli Stati Uniti delle origini, soprattutto nei confronti dei lavoratori neri nell’agricoltura. Si trattava, dicono i vocabolari, di un’esecuzione sommaria operata per via extragiudiziaria da privati cittadini nei confronti di individui ritenuti, secondo la comune opinione, colpevoli.

I linciaggi di oggi assumono spesso la forma persecutoria della diffamazione a mezzo stampa e social. Si “sbatte il mostro in prima pagina” e lo si accusa di ogni nefandezza. Che importa il lavoro di un tribunale? Il marchio della colpevolezza o del dubbio deve restare a vita. E che importa se la campagna di diffamazione e d’odio ha moventi e origini spesso messi in moto per screditare una persona, il suo mondo di appartenenza, le idealità che professa? L’importante è, d’improvviso, sentirsi branco, confortati dalla comune reazione contro chi incarna il “nemico”, dalla parte della “giustizia”.

Molte e molti di noi hanno conosciuto in periodi diversi Aboubakar Soumahoro: chi ci ha costruito insieme vertenze, chi manifestazioni, incontri pubblici e momenti privati. Incontrare una persona significa apprezzarne alcuni aspetti, criticarne altri, avere un rapporto franco e paritario, come sempre dovrebbe essere fra esseri umani, soprattutto se col cuore a sinistra, soprattutto se impegnate e impegnati nelle lotte antirazziste e per i diritti.

Non conosciamo nel merito le accuse che vengono rivolte, ci auguriamo che tribunali e giudici svolgano con serietà il proprio lavoro e ci consentano di capire. Sappiamo che a oggi Abou non è indagato, che non ci sono accuse a suo carico e ci indigna vedere quotidiani che fino a poco fa lo consideravano un simbolo, giornalisti che se lo contendevano nei salotti televisivi, intellettuali ed esponenti politici lanciare su di lui tonnellate di fango.

Da garantisti quali siamo sempre stati, con chiunque, esigiamo per Aboubakar Soumahoro lo stesso rispetto che si continua a portare verso il mondo dei potenti.

Da persone che non abbandonano i compagni di strada a processi mediatici sommari, diciamo ad Abou: nel delegittimare le tue lotte si infangano anche le nostre idee. In ragione di questo non ti abbandoniamo.

Negli ultimi anni, governi e media hanno criminalizzato la solidarietà come mai era avvenuto prima, coniando espressioni indecenti, come “pacchia” o “taxi del mare”. Oggi si torna a sfruttare accuse rimaste prive di riscontro in sede giudiziaria per nascondere il fallimento della strategia dei porti “semichiusi” e degli sbarchi “selettivi”, le carenze del sistema di accoglienza e di una effettiva tutela delle persone vulnerabili e dei lavoratori.

Resisteremo con le lotte quotidiane per i diritti e per la verità contro la propaganda e Abou, fino a prova contraria, continuerà ad essere uno dei nostri.

In un Paese che si definisce democratico, la presunzione di innocenza e i diritti di difesa valgono per tutti, non solo per i ministri dell’interno. Crediamo che, oltre a stabilire le eventuali responsabilità penali individuali, andrebbe condannato politicamente chi ha distrutto, con una serie di decreti legge, il sistema di accoglienza, facendo dell’abbattimento dei costi delle convenzioni il fulcro di una politica basata sulla disumanità e sull’esclusione.

Nessuno di noi, cittadini solidali, farà un passo indietro. Ci impegniamo a contrastare una campagna diffamatoria che colpisce tutti e tutte noi e a chiedere a chi vi aderisca in buona fede di fermarsi a riflettere sugli argini della democrazia e del diritto, che oggi siamo chiamati a difendere.

Si puoi aderire al documento promosso dall’Associazione Diritti e Frontiere scrivendo a info@a-dif.org.