Durante la Covid-19 vi è stata una sospensione di giudizio politico su tutto ciò che i governi hanno approvato: un periodo di “tenebre epistemologiche”, per dirla con l’antropologo Taussig.
Di questo ne parliamo con Stefania Consigliere, antropologa presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, dove insegna Antropologia dei Sistemi di Conoscenza e dove ha organizzato due edizioni del master di secondo livello in etnomedicina ed etnopsichiatria.

Le sue principali linee di ricerca scientifica s’incentrano sulla questione della “natura umana” e i processi di antropopoiesi, ovvero i modi in cui gli esseri umani sono prodotti dalle – e a loro volta producono le – culture cui appartengono; e sulle questioni epistemologiche, ontologiche ed etiche che si aprono quando il precetto di “prender gli altri sul serio” viene, a sua volta, preso sul serio.
Tra il 23 e il 25 aprile 2021 è stata tra le promotrici del convegno “Tutta un’altra storia” , un luogo di dibattito critico a sinistra in cui scienziati sociali e compagni hanno discusso sulle politiche pandemiche. Ecco di seguito la seconda parte dell’intervista.

In ambito medico e curativo hanno avuto un ruolo fondante le cure allopatiche (alcune per altro efficaci ma boicottate) e le strategie vaccinali e non si è tenuto conto del principio di precauzione, dei sistemi alternativi di cura, della libertà terapeutica, dell’autodeterminazione dei corpi e delle differenti epistemologie. Un problema della scienza occidentale o della società occidentale?

Un problema della società occidentale moderna nella sua interezza, che fin dalle sue origini pratica la reductio ad unum di ogni varietà e molteplicità: riduzione della pluralità ontologica all’insegna dell’opposizione fra “natura” e “cultura”; della pluralità economica all’insegna del plusvalore; della pluralità conoscitiva all’insegna dello scientismo; della pluralità terapeutica all’insegna della biomedicina; dei diversi regimi lavorativi all’insegna del salariato; delle pluralità affettive all’insegna di un patriarcato particolarmente acido; dei registri esperienziali all’insegna della veglia razionale; dei sistemi etici all’insegna del produttivismo sacrificale ed eroico.
Questa riduzione del cosmo a un universo misurabile è funzionale al regime incessante di produzione di plusvalore nel quale arranchiamo, che Walter Benajmin definiva “religione del capitale”.
Ora, se il colonialismo, il capitalismo e lo Stato-nazione sono all’origine di questo movimento di riduzione della molteplicità a una sola forma ammessa, per quel che riguarda la scienza bisogna distinguere due accezioni. Le scienze (al plurale e con la minuscola) sono imprese conoscitive delicate e coraggiose, intente a confrontarsi con la realtà del cosmo secondo registri molteplici, spesso estremamente intelligenti e astuti, a volte addirittura visionari.
Ci sono parti della fisica, dell’ecologia, della biologia e della genetica che lasciano a bocca aperta, e indicano che viviamo in un cosmo infinitamente più complesso, intelligente e sensibile di quel che normalmente crediamo.
La Scienza (al singolare e con la maiuscola) è invece l’ideologia stessa della modernità, una sorta di indiscutibile religione che giustifica la nostra presunzione di superiorità rispetto a tutti gli altri gruppi umani.
E se le scienze, al plurale, raramente sono arroganti e tiranniche, la Scienza al singolare lo è sempre e, in ciò, partecipa del peccato originario della civiltà che l’ha sviluppata. Su questo Isabelle Stengers ha scritto pagine memorabili.

Parafrasando il titolo di un articolo dell’antropologo medico Michael Taussig, uno sciamano avrebbe potuto darci una mano?

In un libro straordinario, intitolato Shamanism, colonialism and the wild man, Taussig ha interpretato lo sciamanesimo amazzonico – e la sua ricerca di un senso, sempre precario, alle disavventure dell’esistenza – come risposta allo spazio del terrore creato dai regimi coloniali all’epoca della corsa al caucciù.
Gli spazi del terrore sono luoghi dove l’uso sistematico e intenzionale della violenza arriva a creare un contesto allucinatorio: enclaves coloniali, campi di concentramento, stanze della tortura, frontiere e via dicendo; ma ne fanno parte anche la vita quotidiana in regime totalitario, le istituzioni totali, le famiglie abusanti e la pedagogia nera.
Nello studio di questi fenomeni si tende a sottovalutare due fattori decisivi.
Il primo è il ruolo dell’assurdo nella costruzione degli spazi del terrore.
Dove le regole sono al contempo costrittive (se le violi passi guai), instabili (cambiano spesso, in modo che sia impossibile stabilire delle routine) e assurde (non hanno niente a che fare coi bisogni delle persone), si rompe il legame intimo e cruciale fra soggetto e mondo, fra le cose e le parole. Questa “catastrofe del senso” si traduce poi spesso in quella che, da fuori, è descrivibile come un’implosione psichica – che tuttavia non dipende dalla fragilità del soggetto o da una sua faglia interna, ma dall’impossibilità oggettiva di abitare un mondo impazzito.
Il secondo è il livello di acquiescenza che dev’essere indotto nelle popolazioni perché spazi del genere possano esistere.
Perché i dispositivi di sfruttamento e distruzione possano compiere indisturbati la loro opera, una continua violenza psicologica deve assoggettare le maggioranze, persuaderle della necessità, e perfino della giustizia, di ciò che accade.
Si può pensare, ad esempio, alla retorica del “progresso” da portare ai “selvaggi”, che ha giustificato, presso i sedicenti “civilizzati”, le peggiori atrocità coloniali; alla pedagogia di guerra che si pratica nelle scuole durante i periodi bellici; alle dinamiche della costruzione del capro espiatorio o del nemico pubblico. Qui l’opera maggiore di Hannah Arendt resta imprescindibile.
In termini più sintetici, potremmo dire che ogni regime violento (e quello del plusvalore è fra i più crudeli e distruttivi) può continuare a esistere solo a patto che la sua violenza resti continuamente ai margini del campo visivo e che, quando pure si mostra, venga letta come ovvia, naturale e inevitabile – a patto, cioè, che gli oppressi percepiscano il loro mondo come unico mondo possibile.
Non a caso, il refrain stesso del neoliberismo è: there is no alternative.
Ma, se è così, allora ogni presa di contatto con ciò vive al di fuori del nostro castello culturale, ogni consapevolezza della storicità e parzialità della modernità occidentale, ogni relazione intelligente con gli enti che popolano il mondo (animali, piante, montagne, paesaggi, lari, penati e ninfe) è, per noi, cura, possibilità di accesso a una visione meno sclerotica, meno arrogante, più gentile.
Questo, appunto, riesce a fare un certo sciamanesimo e non sorprende che, in questo periodo storico, gli occidentali più inquieti vi si rivolgano per avvicinarsi a qualcosa che, dalle nostre parti, non può nemmeno essere nominato.

Con il “feticcio della salute” hanno distrutto le relazioni di socialità, di empatia ed hanno creato un nuovo “altro” da combattere eppure la stragrande maggioranza della gente non se n’è accorta, come è stato possibile?

La sola spiegazione convincente che riesco a darmi richiede un giro lungo che passa, nuovamente, per l’opera di Taussig.
Dicevamo poco fa della paura indotta a mezzo stampa e degli spazi del terrore.
A cavallo fra psicologia, antropologia e sociologia, c’è una ricca letteratura sugli effetti della violenza (sia essa fisica, psicologica, strutturale) sui soggetti e sui gruppi che la subiscono. Uno dei più tipici è questo: nel sovvertire la normale strutturazione del mondo, la violenza rende impossibile interpretarlo secondo le categorie consuete, destruttura i parametri che valgono nella dimensione ordinaria dell’esistenza.
Si crea così una sorta di “nebbia epistemologica” in cui non è più possibile stabilire cos’è vero e cos’è falso, cos’è successo a me e cosa ad altri, cos’è davvero accaduto e cosa è stato solo fantasticato; e ricostruire una linea del tempo affidabile.
La memoria discorsiva si frantuma, quella percettiva si acuisce fino all’insopportabile.
Da qui la strana qualità allucinatoria di questi spazi, che rende la testimonianza dei reduci è al contempo cruciale e impossibile.
Gli spazi del terrore non hanno storia documentabile, né narrazione progressiva, né testimoni attendibili.
Ora, si parva licet, nel periodo pandemico sono stati sospesi istituti antropologici tanto fondamentali quanto la cura dei malati, il saluto ai morti, la continuità generazionale, l’autonomia sul proprio corpo, la pura e semplice relazione col prossimo.
È una situazione che richiama le apocalissi culturali descritte da Ernesto de Martino, quando la “fine del mondo” rende impossibile a tutti coloro che lo abitano mantenere la presenza e tutto (io e non-io, adesso e allora, vivo e morto) si confonde.
La confusione attonita in cui tutti, più o meno, siamo caduti; le difficoltà nel ricostruire l’ordine degli eventi; e la tendenza a cercare di rimuovere quanto più rapidamente possibile le (molte) dissonanze cognitive, richiamano, appunto, le dinamiche psichiche che si attivano in situazioni estreme.
Non penso, quindi, che la maggior parte delle persone “non si sia accorta” di quel che succedeva. Semmai, mi pare che – davanti al venir meno di istituti culturali fondamentali, alla violenza comunicativa e all’assurdità imposta con la forza – molti siano rimasti storditi e traumatizzati e che, come spesso accade, abbiano reagito rimuovendo e razionalizzando gli eventi.
Ciò è in confermato, fra l’altro, dall’aumento drastico nel consumo di psicofarmaci e dal crollo della salute psichica presso tutte le fasce d’età.