Noto nei militanti e simpatizzanti della sinistra antagonista un certo sgomento rispetto  alla possibilità che la prima donna presidente del consiglio della repubblica nata dalla resistenza, possa essere una esponente di una estrema destra, più o meno erede del tragico ventennio. La cosa è ancora più lacerante per chi, come il sottoscritto, ha iniziato la sua militanza per “cambiare il mondo” sulle barricate del “mitico” 68, e non era certo la miseria di questo tempo presente ciò che il nostro giovane entusiasmo idealista si aspettava da un futuro pensato al contrario come radioso. 

Come è potuto accadere? Se cerchiamo una risposta esaustiva e conclusiva, credo che non possiamo che dire semplicemente: Non lo sappiamo! Tuttavia cercare di capire, anche cogliendo tutte le possibili suggestioni, credo sia un dovere che abbiamo, (stavo per dire di fronte alla storia, ma in verità, molto più banalmente) di fronte a noi stessi.

La prima cosa che salta agli occhi, prima ancora della sconfitta della sinistra antagonista, è la completa trasformazione in senso non progressista e non riformista della sinistra tradizionale. Il Partito Democratico, fin dalla sua nascita come PDS, con la cancellazione del termine “comunista”, sceglieva di reagire alla fine del suo riferimento storico-politico (caduta del muro) e del suo riferimento sociale (l’operaio fordista), con l’adesione, totale e acritica, al modello occidentale liberal democratico, immaginato ancora nella logica progressista ( e “progressiva” nell’ottica togliattiana) della nostra Costituzione, ma in realtà praticato sin dagli anni ottanta, come neo liberismo egoistico e competitivo. Alle origini della Seconda Repubblica questa (non più)sinistra si è resa protagonista dello smantellamento del Welfare, e della svendita ai privati della nostra poderosa industria di Stato.

Oggi il PD è, a casa nostra, il più organico rappresentante degli interessi e delle politiche atlantiste, filo occidentali e filo statunitensi, in modo più affidabile delle stesse destre. Ne fa testo la totale adesione ai due principali assiomi della governance globalista dell’Occidente. LA GUERRA come scelta di ultima istanza delle relazioni internazionali, e di cui il PD si è fatto paladino nei recenti fatti della guerra per procura in Ucraina. Ed ancora la completa adesione al RIGORISMO ECONOMICO, inteso come radicale adesione alle logiche del debito, come strumento di controllo politico e ricatto nei confronti degli Stati, delle comunità e dei singoli, da parte dell’ordine e del dominio della finanza globale, vero volto del capitalismo della nostra era.

L’ascesa delle destre comincia con la resa e la mutazione genetica della sinistra istituzionale! Questo per altro rende del tutto fuori luogo qualunque appello per il “voto utile”, cosa che per altro lo stesso PD, ad ogni appuntamento elettorale, si guarda bene dal fare, rifiutando qualunque rapporto con le forze alla sua sinistra, e addirittura rifiutando oggi ogni possibile approccio con forze come i pentastellati. Insomma per il PD che la destra  reazionaria vada al potere sembra quasi non essere un problema del quale preoccuparsi più di tanto.

Ma tutto questo non basta ancora a spiegare l’ascesa della destra estrema. Cerchiamo lumi allora guardando al programma elettorale, ma soprattutto cercando di capire come l’italiano medio percepisce posizioni e valori in campo, dichiarando subito che il nostro è solo un tentativo senza garanzie di risposte definitive, e forse a volte neanche del tutto chiaramente definite. 

Partiamo dunque dal programma delle destre, a quanto pare, oggi in grande ascesa. Omettiamo una serie di passaggi che hanno poco spazio nei dibattiti pubblici in vista del voto, e concentriamoci sulle questioni essenziali. Ci sono due aspetti dirompenti nelle intenzioni di governo di Meloni e compagni (anzi camerati): FLAT TAX e PRESIDENZIALISMO. Abbiamo già scritto altrove che questi punti rappresentano di fatto il totale stravolgimento del senso della nostra Costituzione. Come prenderla e buttarla via. Ma sul piano delle ricadute elettorali?

Non credo che il presidenzialismo sia visto dall’elettore medio come un pericolo. La stessa preoccupazione per una possibile svolta autoritaria di un governo di destra è avvertita solo dall’elettore di ceto medio e con “memoria storica”. L’elettore medio ha un’idea molto vaga di concetti come fascismo, dittatura o svolta autoritaria, e comunque non li percepisce come questioni che possano appartenere al nostro immediato futuro.

La flat tax, che è un evidente regalo ai più ricchi, dovrebbe determinare una reazione nei ceti più poveri. Ma non è così! Io credo ché l’idea che qualche altro venga agevolato pesa poco se non sei tu a dovere direttamente pagare. Certo sappiamo tutti benissimo che meno gettito fiscale significa meno servizi, meno istruzione e meno prestazioni sanitarie. Ma forse la gente pensa che tanto scuola e sanità sono già agonizzanti da tempo e c’è poco da difendere. 

Potremmo continuare su altri punti programmatici, ma sinceramente penso che non servirebbe a molto. Sono infatti convinto che in realtà l’elettore tipo non sceglie, nella maggioranza dei casi, secondo calcoli puramente razionali inerenti ai punti programmatici, spesso complessi e poco comprensibili, delle forze in campo, ma molto di più secondo l’intreccio di suggestioni che condizionano il momento o la specificità della fase. Ma per capire chi è l’elettore medio di oggi occorre fare un passo indietro. 

È dagli anni novanta, con la cosiddetta fine delle “ideologie”, ma poi segnatamente a partire dalla crisi del 2008, che il rapporto organico, e in qualche modo di consonanza ideale e strategica, che legava i Partiti ai loro bacini elettorali, si è prima via via deteriorato, per implodere poi definitivamente. Durante la Prima Repubblica questo rapporto si era mantenuto abbastanza saldo, come previsto implicitamente dalla nostra Costituzione e dalla “dottrina Mortati”. I partiti come interpreti delle aspirazioni e dei valori delle classi e dei vari ceti sociali, verso ipotesi di governo e assetti istituzionali di lungo periodo. Non è un caso che ad ogni tornata elettorale, le variazioni percentuali tra i vari contendenti erano minime.

La vittoria del neoliberismo e la sconfitta di tutte le sue possibili alternative, più o meno “rivoluzionarie”, ci ha condotto oggi verso una sorta di navigazione a vista: Nel nostro paese inoltre tutto questo si è prodotto parallelamente ad una interminabile situazione di grande difficoltà economica, come un sorta di tunnel dal quale non si vede, neppure ipoteticamente, alcuna via d’uscita. I dati a questo proposito parlano chiaro e sono sconfortanti: Dal punto di vista politico e sociale e non solo economico, la storia della seconda Repubblica non può che essere considerata un fallimento, che oseremmo definire totale. 

In economia, fin dagli anni novanta abbiamo perso con lo smantellamento dell’industria di Stato, di cui abbiamo già parlato, la nostra peculiarità. È iniziata allora una caduta culminata con la crisi del 2008, che ha investito l’economia mondiale, ma rispetto alla quale noi siamo il solo paese dell’OCSE  a non avere raggiunto ad oggi i livelli del PIL precedenti alla crisi. Le PMI che costituivano l’orgoglio del nostro paese sono in evidente difficoltà, e molte sono stabilmente entrate nel ciclo produttivo dell’economia tedesca. I nostri salari sono tra i più bassi d’Europa, sia riguardo ai lavori non qualificati sia rispetto ai lavori più professionalizzati.

Questa situazione ha anche prodotto la peggiore classe politica che il nostro paese abbia mai avuto. Incapace di darsi una seria legge elettorale a trent’anni dalla fine della prima Repubblica. Impastoiata nel più becero populismo. Con un sistema dei partiti lontano anni luce da quello pensato dai Padri costituenti, caratterizzato da personalismi e leaderismi e da cordate il cui unico scopo è restare saldamente attaccati alla poltrona.

La sensazione che si ha, a questo punto, è che ci troviamo di fronte a qualcosa che non ha più nulla a che vedere con il concetto classico di “crisi”, che si riferisce sempre a qualcosa comunque di limitato nel tempo, e che ha nel suo stesso concetto l’idea del superamento (etimologicamente crisi rimanda al “tempo della decisione”). Oggi ci troviamo piuttosto in una situazione che il cittadino medio italiano vive (più o meno coscientemente) come  DECADENZA: Una condizione cioè fissata nel tempo e che non ammette speranze di reversibilità, almeno nel breve e medio periodo, e che quindi non lascia intravedere possibili uscite o vie di fuga. 

Di fronte a tutto questo oggi l’italiano medio si sente come spaesato ed avvilito da una sorta di cronica mancanza di speranze e di prospettive, che produce una totale estraneità e completa sfiducia nella classe politica, rispetto alla quale tuttavia, in mancanza di solide e razionali ipotesi alternative, si reagisce con un atteggiamento puramente negativo. Una sorta di “Dobbiamo cambiare tutto” ma in realtà senza sapere come, che porta al disinteresse e all’astensionismo elettorale, in costante crescita, o peggio alla ricerca dell’uomo giusto che farà giustizia.

La classe politica ha capito e sfruttato questa situazione con ipotesi populiste e promesse di totale cambiamento, anzi di vero e proprio ribaltamento dell’esistente, ovviamente molto urlate e quasi per nulla reali. La storia delle ultime tornate elettorali è una perfetta esemplificazione di questo stato di cose. Prima è stata la volta di Renzi, che ancora all’interno di un partito tradizionale, ha catturato il dissenso diffuso e confuso dell’elettorato con la promessa di “rottamare” politica e politici tradizionali. Poi, alla successiva tornata elettorale, si è fatto un ulteriore passo in avanti con gli espliciti “vaffa” di Beppe Grillo, e con la promessa di aprire il parlamento come una scatoletta. Naturalmente tutto è sempre caduto nel nulla e nella generale disillusione, in attesa di un nuovo sproloquio antisistema che catturasse l’attenzione di un elettorato sempre più deluso e sempre più confusamente contro tutto e tutti. Ed oggi? Cosa c’entra l’ascesa delle destre con questi precedenti?

Oggi siamo al fondo del barile! La possibile vittoria delle destre potrebbe significare una sorta di ulteriore passo verso il baratro. La rabbia qualunquista e antisistema che dall’occasionale populismo senza veri contenuti approda verso una destra che invece ha un preciso (e terribile) passato e precise ipotesi di governance e contenuti chiari e ormai storicizzati.

Potrebbe esserci una logica tragica e catastrofica in tutto questo (usiamo il condizionale di dubbio e di speranza). Il punto d’arrivo del malessere sociale degli italiani che dall’iniziale smarrimento approda verso la nostalgia per la perdita di un passato pensato, anche in senso “mitico”, come migliore, da opporre ad un incerto futuro da scongiurare. Una risposta sbagliata al giusto bisogno di un maggiore senso di protezione. Possibili scelte condivise che consistono sostanzialmente in una sorta di involuzione culturale, caratterizzata dal ritorno alle origini. La pretesa della riscoperta, spesso del tutto falsata, della propria storia collettiva e dei valori che si presuppone l’abbiano determinata. 

Riscoprire il proprio passato e ri-attraversarlo, anche in modo critico, è cosa buona e giusta. Ma compattarsi intorno ad una presunta identità originaria, vissuta nei modi di un identitarismo escludente e puramente difensivo e tradizionalista, è il sintomo di un grave malessere, che il richiudersi difensivamente in se stessi non può che aggravare producendo avversione per “l’altro” e per “il diverso” che finiscono col diventare la causa di tutti i nostri mali. Il capo espiatorio. Il nemico sul quale scaricare tutte le nostre frustrazioni.

La destra estrema, agitando i vessilli della patria perduta, della nazione umiliala, del bisogno di rivincita contro chi ci ha mortificato, ha da sempre avuto la capacità di sfruttare le situazioni storiche più precarie e critiche, per affermare un ordine senza libertà e senza dissenso, cementato sui presunti valori di un passato mitico del popolo e della nazione che andava restaurato. Così sono nati il fascismo in Italia ed il nazismo in Germania, sulla scorta delle catastrofi figlie del primo conflitto mondiale.

 Oggi ancora una volta, e come allora, il nostro paese è probabilmente l’anello debole, il punto della possibile rottura di una situazione di crisi e vera e propria decadenza, che attraversa tutto l’occidente. È bene precisare che nessuno pensa al ritorno del fascismo storico o al riprodursi delle dittature militari del dopo guerra. Ci riferiamo piuttosto alla nascita, un po’ ovunque in Europa come negli USA,  di movimenti di destra, più o meno aggressivi, reazionari, tradizionalisti e fortemente identitari, che insistono sulla necessità di riscoprire i vecchi valori del cristianesimo più retrivo e di stampo medievale, legato alla cosiddetta famiglia tradizionale, al ruolo del capo famiglia e alla subordinazione della donna e dei figli. Legati alla logica delle gerarchie ben definite, come alla rigidità dei comportamenti ammessi secondo codici che si pretendono legittimati da discutibili radici profondamente affondate in un passato, che va difeso contro la modernità, che è rappresentata da un insieme di valori disgreganti da combattere ed è incarnata da uomini, (traditori in patria o minacciosi stranieri ai nostri confini), che rappresentano semplicemente il nemico da combattere e distruggere. 

Se il problema, come reazione ad una significativa perdita di potere e di prestigio dell’occidente a livello planetario, si presenta in modo diffuso, solo in alcuni paesi più marginali ha già raggiunto il potere insediandosi nella stanza del comando. Così in Polonia e soprattutto in Ungheria. 

Ora però la svolta potrebbe riguardare l’Italia, paese di grande e gloriosa cultura e storicamente centrale nella storia dell’Europa e dell’intero Occidente. Una svolta culturale, anche oltre ogni contenuto da programma elettorale: La lotta contro i migranti, irrazionalmente vissuti come occupanti che minano le nostre tradizioni, e si appropriano delle nostre ricchezze; Il bisogno di certezze valoriali di antica memoria nei rapporti sociali e personali contro la paura, presupposta disgregatrice, delle nuove identità (omosessuali, comunità LGBT, ecc); Il sospetto verso qualsivoglia nuova postura intellettuale o di nuova socialità; L’avversione (per la verità non senza ragioni) verso l’UE e le istituzioni economiche globali che spingono verso il baratro la nostra economia. Tutto è parte della paura, e trova una sponda nella dimensione fortemente identitaria, sciovinista, tradizionalista e sostanzialmente razzista della destra.            

Certo va sottolineato come probabilmente alle prossime elezioni l’astensionismo potrebbe arrivare a quote prossime al 50% degli aventi diritto. Una maggioranza alle due camere, anche schiacciante e forse pure superiore ai due terzi dei parlamentari, potrebbe essere il frutto del consenso di un solo elettore su quattro degli aventi diritto. Va detto tuttavia che purtroppo anche l’astensionismo è parte del problema. Nella ormai cronica sfiducia nelle istituzioni; Nella sensazione che ormai nessuno può invertire la tendenza; Nel lasciar fare alle destre che magari non risolveranno nulla, ma tanto non c’è nulla che si possa risolvere.

Si potrà obiettare che la mia è solo un’ipotesi coniugata nei suoi esiti peggiori. Verissimo! Ma certamente la crisi di fiducia nel progresso è radicata in Italia (come nell’intero occidente) e sulle probabilità, sul breve e sul lungo periodo, dell’avverarsi delle sue conseguenze più deleterie e pericolose, si può discutere quanto si vuole, ma nessuno può ignorarle. 

In conclusione: Che fare? Purtroppo dalle istituzioni e dall’alto non può venire nessun aiuto. La presunta sinistra del Partito Democratico, come ho cercato di spiegare all’inizio di questo scritto, non potrà mai essere parte della soluzione, per la semplice ragione che è piuttosto parte del problema. 

La sinistra antagonista conta poco, ma alla fine è, almeno potenzialmente, l’unica speranza che abbiamo. Ci vuole al contempo realismo e capacità di sognare. Modestia e capacità di decisione. Dibattito serrato ma il massimo di disponibilità unitaria. Consapevolezza che le moltitudini sono lontane, ma fiducia di poterle agganciare con le giuste parole e i giusti obiettivi. 

Sarà facile? No! È più probabile la sconfitta? Si! Dobbiamo lo stesso crederci e provarci? Assolutamente si! Perché questo è il solo mondo che abbiamo e la sola casa che possiamo abitare, ed è nostro dovere sperare nel futuro contro la decadenza e contro la deriva dei tristi tempi che viviamo, D’altra parte quali altre alternativa abbiamo?