Recentemente in una chat di discussione tra militanti della sinistra (più o meno radicale o riformista) si è aperto un dibattito sulla abitudine delle donne delle comunità islamiche di portare il velo. La posizione di gran lunga prevalente sosteneva che, a parte i paesi integralisti dove la pratica è obbligatoria, nella stragrande maggioranza dei casi si tratterebbe di una libera scelta da parte delle donne che ci tengono ad affermare la propria identità culturale, e che in ogni caso è nostro dovere rispettare tutte le diversità. Io però  su questo tipo di lettura ho parecchie perplessità.

Intanto non è mai così semplice parlare di scelte libere, se non su un piano puramente formale. Le nostre scelte avvengono sempre entro certi ambiti culturali dei quali facciamo parte. La loro qualità dipende dai livelli di autonomia che ai singoli individui viene permesso dalla loro collocazione sociale e dall’insieme delle credenze e dei valori che rappresentano il sentire comune della società che li circonda. In tutte le società storiche, che ricordiamo sono state caratterizzate da sempre e senza alcuna eccezione dalla distinzione tra dominanti e dominati, spesso i dominati hanno accettato la loro condizione come naturale e a volte addirittura come desiderabile alla stregua  di una libera scelta. Il fatto che in tutti i contesti storici esistano gli “schiavi felici”, non significa che la schiavitù sia da considerarsi accettabile.

Nelle comunità islamiche di oggi credo che vi sia ancora una forte tendenza al predominio maschile che limita fortemente l’autonomia delle donne,  Chiariamo subito che questa constatazione nulla ha a che vedere con pregiudizi razziali o religiosi. Per dimostrarlo basterà constatare che una forte subordinazione delle donne alle logiche patriarcali e maschiliste è esattamente ciò che si verificava a casa nostra fino a pochi anni fa, e che ancora drammaticamente si manifesta nel perdurare della violenza di genere. Si potrebbero fare poi altri confronti su altri temi dai quali risulterebbe che, in quanto a valori di civiltà, noi siamo messi molto peggio, e non solo nei confronti dell’Islam. Ma nello specifico sulla libera scelta dell’uso del velo da parte delle donne islamiche mantengo tutte le mie riserve.

Questo modo del tutto formale di intendere la libertà, legandola anche alla percezione soggettiva che ha l’individuo rispetto al suo stesso agire, non è affatto da disprezzare ed è il lascito migliore del pensiero liberale delle origini illuministiche e rivoluzionarie. Quel pensiero da cui, per essere chiari, sono lontanissimi i liberali di oggi. Penso tuttavia che chi pretende di schierarsi su posizioni di sinistra antagonista al sistema dovrebbe andare oltre. In un’ottica comunista, o se la parola vi pare azzardata diciamo nell’ottica di una gestione comune del sociale (che è poi la stessa cosa), la libertà dovrebbe essere vista per la comunità, ma anche per le singolarità che la compongono, come il moltiplicarsi delle possibilità di scelta libera, anche nel senso di scelta liberata da limiti e condizioni di impedimento. Libertà come costante conquista. Come movimento in progress verso altre e più ampie possibilità di scelta e di esistenza.

Entro la stessa logica formale e non antagonista alle logiche dell’esistente, si pone il continuo appello per “l’accettazione e il rispetto delle diversità”. Anche questo come punto di partenza è sacrosanto, ma da solo non basta. Concepire la diversità come il diritto all’esistenza di una molteplicità di culture non è produttivo di reale trasformazione sociale, se contemporaneamente non ci si pone il problema concreto e reale del loro incontro, ed inevitabilmente anche del loro scontro, in un processo che classicamente si direbbe dialettico, verso forme assolutamente non facili di sincretismo di principi e valori.              

Il rispetto della diversità deve trasformarsi in una battaglia finalizzata al meticciato socio-culturale, dove necessariamente ci si mette in gioco senza avere mai il timore di mettere in gioco lAltro e il suo modo di intendere la vita e il mondo. Limitarsi alla semplice convivenza implica un mondo dove bianchi, neri, orientali, islamici e quant’altri, vivono chiusi nei loro recinti, al massimo salutandosi rispettosamente quando ci si incontra, come avviene nei grandi condomini dove nella migliore delle ipotesi, rispettosi inchini  nascondono il fatto che nessuno conosce il nome dell’altro. 

Questo modo tipico del formalismo liberale, di intendere i rapporti interculturali, senza neppure rendercene conto, finisce con l’imporre la nostra cultura agli altri. Ci riferiamo a quel nostro modo fortemente individualistico di intendere la società come un aggregato di monadi, trasferito ora anche al rapporto tra le diverse comunità.

Un sintomo della malattia, nello specifico dei rapporti con le comunità islamiche da cui è partito il nostro discorso, è quello di considerare la scelta di indossare il velo da parte delle donne musulmane come affermazione identitaria, senza rendersi conto che la loro ostentazione dei propri simboli culturali ha il senso di una volontà di chiusura nei confronti degli altri (nei nostri confronti!) come bisogno di marcare nettamente i confini del loro territorio. 

Non capire questo, tuttavia, significa anche non capire che c’è una ostilità, a volte palese e a volte velata, nei nostri confronti – che è del tutto giustificata dal punto di vista storico – vista l’enorme quantità di soprusi che le spinte imperiali e imperialiste di quel cosiddetto occidente, di cui noi siamo diretti eredi, ha dispensato al mondo intero e, dunque, anche al mondo islamico rispetto al quale noi dovremmo semplicemente chiedere scusa, cercando di resettare il passato ed iniziando un nuovo percorso – realmente alla pari – di fratellanza e sorellanza, all’interno del quale si può anche litigare (quando c’è da litigare) per chiarire qualcosa che all’occasione non ci piace.

Certo che se una parte della sinistra, anche di quella non compromessa con le logiche di potere, non riesce ad andare oltre i semplici valori del formalismo liberale, allora…