Nei giorni scorsi grandi manifestazioni si sono svolte in diverse città libiche, da Tobruk e Tripoli, passando per Misurata.
Le proteste hanno carattere politico e sociale: contro lo stallo istituzionale che impedisce le elezioni e l’uscita dal tunnel della dualità di potere, ma anche contro le difficili condizioni di vita.
Nella maggior parte delle città libiche l’elettricità viene interrotta fino a 20 ore al giorno e mancano carburanti e derrate alimentari.
A Tobruk in particolare ci sono state le proteste più dure.
I manifestanti hanno incendiato copertoni davanti alla sede del Parlamento e sono penetrati nell’edificio compiendo atti di vandalismo e distruggendo documenti e suppellettili.
Esercito e forze di polizia non sono intervenute.
In piazza sono tornati di nuovo gli slogan delle Primavere arabe: “Il popolo vuole abbattere il sistema”.
Dopo il “venerdì dell’ira”, la situazione nelle città libiche sta tornando alla calma in attesa della prossima esplosione.
Condanna del vandalismo da parte di tutti gli organizzatori delle proteste.
Le violenze vengono attribuite a elementi infiltrati, “che hanno agito per conto di agende estere”.
Il massimo di populismo e ipocrisia è stato raggiunto dal premier Dbeiba, che dopo aver ordinato di sparare ai manifestanti che avevano raggiunto il palazzo del suo governo, non ha esitato a pronunciare un sostegno alle rivendicazioni del popolo: “Sono con voi. Tutti le istituzioni devono andarsene. Il mio governo resta fino alle elezioni”.
La rabbia della popolazione è stata scatenata anche dalla mancanza di servizi che il “suo” governo non ha mai risolto: interruzione dell’elettricità, carovita e scarsezza di carburanti e derrate alimentari.
L’immagine del Palamento bruciato ha girato il mondo e ha suonato il campanello d’allarme all’élite libica, che si era adagiata sul lusso, illegittimamente: il Parlamento è stato eletto nel 2014 (scaduto da 4 anni, quindi), il congresso non è stato mai eletto, ma semplicemente nominato a Skheirat, in Marocco, durante gli accordi del 2015 e il Consiglio di Stato è stato eletto da un organismo provvisorio scelto dall’inviata dell’ONU.
Non è stato raggiunto l’accordo politico per le elezioni per una questione di lana caprina: possono candidarsi i libici che posseggono la doppia cittadinanza?
Il quesito sottintende un altro posto dagli islamisti: come si può impedire al generale Haftar di candidarsi?
E il portavoce del generalissimo, Mismari, ha preso la parte dei manifestanti, pur condannando le violenze, ergendosi paladino delle libertà e dimenticando che la deputata Siham Serghewa è sparita da Bengasi, dal 19 luglio 2019, per aver criticato l’attacco su Tripoli.
Tra islamisti e militaristi, la Libia ha perso la bussola.