L’invasione dell’Ucraina e la copertura mediatica che ne è derivata, hanno diffuso ill termine “guerra ibrida” dopo anni nei quali si sono date varie qualificazioni alle tante guerre che si stavano combattendo nel mondo, dalla guerra “asimmetrica” successiva all’11 settembre 2001, fino alle guerre “permanenti” che insanguinano l’Africa ed il vicino Oriente, senza soluzione di continuità. Si tratta quasi sempre di guerre che non vengono dichiarate formalmente, che si sottraggono all’applicazione del diritto internazionale, e che hanno come principale obiettivo le popolazioni civili che vengono massacrate per costringere i contendenti alla resa, per ragioni strettamente politiche o per mere finalità di appropriazione delle risorse.

Per guerra ibrida, in particolare, intendiamo una “strategia militare, caratterizzata da grande flessibilità, che unisce la guerra convenzionale, la guerra irregolare e la guerra fatta di azioni di attacco e sabotaggio cibernetico (cfr.  “Treccani”). La guerra irregolare riporta al sostegno esterno di attività belliche di intensità medio-bassa ed all’utilizzazione di milizie private come, nel caso della Libia e di altri paesi africani, dove è operativo da anni il gruppo russo denominato Wagner. Il sabotaggio cibernetico può estendersi fino alla diffusione sistematica di fake news ed all’utilizzo delle reti social per disinformare ed orientare l’opinione pubblica, anche al di fuori dei paesi direttamente interessati dal conflitto. I confini tra le guerre combattute con le armi e i conflitti basati sull’appropriazione ed il commercio globale delle risorse naturali sono diventati sempre più labili, fino a confondersi del tutto nel marasma quotidiano dell’informazione e dei pregiudizi contro “gli stranieri”.

Dalle “guerre di polizia internazionale” si è rapidamente passati alla guerra contro il “nemico interno” ed allo straniero che comunque chiede di fare ingresso nel territorio dello Stato. Una situazione in cui si moltiplicano gli allarmi rilanciati dai media, dall’emergenza criminalità, all’emergenza terrorismo, mentre la politica della paura risulta vincente ad ogni scadenza elettorale. Gli Stati di origine o di transito hanno così la possibilità di sfruttare le paure diffuse per anni tra le popolazioni dell’Occidente ricco per attuare veri e propri ricatti nei confronti dei paesi confinanti, o con i quali si trovano in un rapporto di competizione economica, alimentando la minaccia dell’invasione. Le politiche di contrasto della libertà di emigrazione, e del diritto di chiedere asilo in un paese sicuro, in tempi in cui le guerre permanenti e le devastazioni ambientali privano i popoli di qualsiasi speranza di futuro, sono il terreno sul quale governi di segno diverso hanno progressivamente eroso il principio di eguaglianza e la portata effettiva dei diritti umani. Le frontiere sbarrate non hanno solo precluso l’ingresso ai migranti in fuga, ma hanno anticipato, o riprodotto, nuovi muri su scala internazionale riportando in auge la corsa agli armamenti e la divisione del mondo in blocchi contrapposti. Ed anche all’interno dei confini non sono mancati nuovi fronti mobili, come si sta verificando negli ultimi anni in Libia, con una stretta connessione tra il controllo delle persone migranti e la gestione delle risorse derivanti da idrocarburi, fonte di un conflitto ormai endemico in un paese ancora lacerato da scontri tra milizie sostenute dall’esterno. Anche la gestione dei controlli di frontiera, e più in generale le politiche migratorie possono diventare quindi strumento di guerra, come si è visto nel caso dei profughi spinti dalla Bielorussia in Polonia poco prima dell’invasione della Ucraina, e già in precedenza, nei paesi confinanti con la Siria, in Turchia in particolare, con conseguenze che hanno interessato tutti gli Stati dell’Unione Europea. Che poi hanno stipulato un accordo con Erdogan per ottenere il blocco delle partenze verso le coste europee spingendo al massimo il potenziamento dell’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne (FRONTEX), ed ulteriori accordi con paesi terzi ritenuti “sicuri”, al fine di facilitare respingimenti ed espulsioni. Da ultimo, si segnala anche un accordo tra Frontex e la Moldavia. Malgrado il parziale congelamento dei fondi europei destinati a questa agenzia da tempo al centro di critiche assai gravi per le reiterate violazioni dei diritti umani.

Rientra in questa nuova dimensione di guerra anche la persecuzione giudiziaria e la criminalizzazione degli attori non statali che cercavano di operare attività di salvataggio ed assistenza umanitaria nei passaggi terrestri di frontiera e nelle acque del Mediterraneo, ed una diffusa censura nei confronti di tutti coloro che con la loro attività di informazione potevano documentare i crimini commessi dalle autorità statali, spesso complici degli abusi commessi nei paesi di origine e transito. Come nel caso delle guerre ibride, anche nella guerra condotta contro i migranti la realtà narrata dai social controllati da politici nazionalisti o populisti, veri e propri “imprenditori della paura”, ha spesso prevalso sulla concreta dimensione dei fatti. Ed è riuscita persino a condizionare l’avvio di importanti indagini penali, come nel caso Iuventa, ancora alla fase dell’udienza preliminare dopo cinque anni dal sequestro della nave, di fronte al Tribunale di Trapani. Un caso che ha suscitato tanto clamore mediatico, anche per via delle intercettazioni disposte su giornalisti ed avvocati e che oggi sembra caduto nel dimenticatoio, salvo ad essere utilizzato ad evidenti scopi strumentali dalla difesa del senatore Salvini nel processo Open Arms.

Lo squilibrio tra percezione e sostanza dei fatti implica l’adozione di politiche di non-accoglienza che negano ogni diritto alle persone, che criminalizzano i soccorsi delle ONG in mare ed i tentativi di integrazione operati a livello di enti locali, come nel caso della vicenda politica, giudiziaria e personale di Mimmo Lucano, con una spinta crescente verso la precarietà ed ogni tipo di sfruttamento.

La pandemia da Covid 19 ha ulteriormente accresciuto la vulnerabilità delle persone esposte ai conflitti ed alle migrazioni forzate, spesso conseguenza di disastri ambientali seguiti alle guerre ed al furto delle risorse. Le risposte che sono state fornite dai principali paesi europei ed in particolare dall’Italia, sono state condizionate dalle politiche dell’emergenza e da una diffusa discriminazione, che si riscontra anche nella carente assistenza sanitaria e nella riduzione delle misure di sostegno all’economia dei paesi più poveri. Si sono cosi’ riprodotte le condizioni ideali per lo scatenamento di altri conflitti, soprattutto in Africa, e per il ricorso a forme sempre più feroci di guerra, con un crescente coinvolgimento delle popolazioni civili e con la diffusione di truppe mercenarie. Le violazioni dei diritti umani nei paesi partner dell’Occidente nelle politiche di contrasto della cd. immigrazione illegale sono rimaste impunite, come nel caso esemplare dell’Egitto di Al Sisi.

Dalla esternalizzazione dei controlli di frontiera si sta ora passando alla esternalizzazione delle procedure di asilo, arrivando a rendere evidente lo strappo rispetto a quanto imposto agli Stati dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Persino il contenimento degli arrivi di persone con evidenti bisogni di protezione è diventato argomento di propaganda elettorale, ed in Italia ( rispetto alla Libia ed alla Tunisia) come in Gran Bretagna (con i recenti accordi con il Rwanda), seppure con modalità diverse, si insiste sugli accordi con i paesi terzi ritenuti “sicuri” che stanno consentendo respingimenti collettivi immediati e divieti di accesso al territorio nazionale, anche per presentare soltanto una istanza di protezione internazionale. In contrasto con quanto finora garantito dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Una questione che riguarda anche l’Unione Europea perché l’Olanda è stata il primo paese che ha intravisto la possibilità di deportare richiedenti asilo, giunti irregolarmente sul territorio nazionale, verso il Rwanda ritenuto “paese terzo sicuro”. Come è previsto ida una legge approvata dal parlamento olandese lo scorso anno sotto la spinta dei partiti di destra.

 Le “guerre ibride” sono tutte diverse una dall’altra, a seconda dei territori e delle forze militari e degli Stati coinvolti, ma anche i profughi che da queste guerre fuggono ricevono un trattamento differenziato, a seconda dei rapporti politici tra paesi di origine e paesi di arrivo, e talvolta a seconda del colore della pelle o del credo religioso. Una evidenza che la guerra in Ucraina sta dimostrando una volta di più, anche in Italia. I sistemi di accoglienza in Italia e l’intera normativa in materia di controllo delle frontiere e di immigrazione presentano da sempre profili fortemente discriminatori e in molti casi in aperto contrasto con il diritto internazionale. Un contrasto che non si può risolvere accordando prevalenza alla “difesa dei confini” o a una generica istanza di “sicurezza pubblica” per legittimare prassi amministrative, e decisioni politiche a monte, gravemente lesive dei diritti fondamentali delle persone migranti. La lesione dei diritti fondamentali dei migranti corrisponde poi a processi di accrescimento del divario sociale che oggi coinvolgono autoctoni e nuovi arrivati, con l’erosione delle garanzie offerte nei paesi europei dal cd. stato sociale.

Stiamo verificando oggi quanto le guerre incidano sui rapporti sociali all’interno degli Stati, e dunque anche sul rapporto con i migranti forzati e quindi sui sistemi di accoglienza, anche in base alla loro prossimità con la nostra vita quotidiana, e soprattutto in base alle possibile ripercussioni che i cittadini sono indotti a temere in ordine al mantenimento dei propri livelli di vita. Una scoperta relativamente recente, perché in crisi precedenti, basti pensare all’arrivo dei profughi siriani nel 2015, ed in precedenza negli anni ’90 all’arrivo dei profughi dalle guerre nei Balcani, la considerazione dell’altro come minaccia al proprio benessere era molto meno avvertita e restava relegata alla manipolazione elettorale delle forze nazionaliste o populiste.

Non sorprende quindi che si proponga la distinzione tra veri profughi e finti rifugiati, anche per difendere una politica di negazione del diritto alla protezione internazionale ed alla accoglienza che ha caratterizzato le ultime stagioni politiche in Italia, anche più che in altri paesi europei. Del resto dai sostenitori dei teoremi dei “taxi del mare” e della “pacchia dell’accoglienza” non è difficile attendersi altri contenuti propositivi per fare fronte alle situazioni reali piuttosto che alle paure inventate per lucrare consenso elettorale. Sembra comunque un dato irreversibile quello costituito dagli effetti delle politiche basate sul primato della sicurezza che ha implicato uno smottamento del sistema di accoglienza verso strutture detentive o para-detentive, come le navi Hotspot, con una crescente precarizzazione delle persone poi filtrate ed ammesse alle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. In ogni caso con la continua riproduzione di vaste aree di marginalità e di irregolarità. Che sono poi servite a legittimare l’inasprimento di quelle stesse politiche.

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