Non credo nella lotta armata perché confermerebbe la tradizione secondo cui il potere è nelle mani di chi usa meglio le armi. Anche se il movimento democratico dovesse affermarsi con la forza delle armi, la gente continuerebbe a pensare che alla fine vince sempre il più forte”.

Aung San Suu Kyi

Gli ucraini sono sotto le bombe di scelte assassine e criminali, e hanno bisogno di tutta la nostra solidarietà e di tutte le azioni concrete – e sono tante – che possiamo fare. Si stanno difendendo militarmente e stanno anche allargando a tutti i civili la chiamata alle armi. Io rispetto questa scelta. Rispetto il coraggio di queste donne e questi uomini. Credo tuttavia che una resistenza nonviolenta – che già si sta manifestando tra i civili ucraini – avrebbe una forza molto più ampia, sarebbe di gran lunga più efficace ed incisiva e, simbolicamente, spazzerebbe via tutta la propaganda bellica dell’aggressore russo, di quel nazionalismo buio e purulento tirato fuori dagli anfratti più nauseabondi della storia. Inoltre questa lotta nascerebbe già feconda dei semi del rispetto e della riconciliazione, essendo sicuri, e lo sono in primo luogo gli ucraini, che una parte significativa del popolo russo non avrebbe mai acconsentito a questa scellerata aggressione. Una lotta e una resistenza che eviterebbe, inoltre, il rigonfiarsi dell’odio e del risentimento che ogni giorno di violenza, di lutti e sofferenza si porta, come un tumore maligno, inevitabilmente dentro.

Osservatori e studiosi di questioni internazionali e militari, di diversi orientamenti, ci dicono che percorrendo la strada dello scontro armato il rischio di uno scenario siriano, per anni, nel cuore dell’Europa, è altissimo. Il costo in vite umane incalcolabile e la possibilità di sviluppi di pace e di riconciliazione, divaricanti all’infinito. Io credo che in questo quadro accettare, addirittura favorire, inviando armi a militari e civili, questa possibilità, sia una scelta di enorme irresponsabilità.

Alcuni obiettano, ma per questa via, quella della lotta e della resistenza senza armi, quanto tempo ci vorrà? Non lo so. E non mi iscrivo nella lista capitanata dagli stregoni militaristi e guerrafondai che hanno promesso, non azzeccando minimamente nessun pronostico, guerre lampo e pace a portata di mano in tutte le disastrose avventure militari nelle quali ci hanno trascinato dal dopoguerra ad oggi. Testimoniata, buon’ultima, dalla vergognosa situazione dell’Afghanistan dopo vent’anni di guerra e occupazione militare.

Ma come si può opporre alla cultura patriarcale del dominio e della sopraffazione, della violenza e del sangue – di cui la guerra è summa e sintesi – e sulla quale si fonda l’aggressione di Putin all’Ucraina, una risposta che si innesti su comparabili presupposti culturali, con le medesime distruttive armi, con analoghi linguaggi di vendetta e di morte? Daremmo ragione a loro, a quella cultura nefasta e nauseabonda: accetteremmo anche noi che la vittoria, qualsiasi vittoria, è sempre fondata sul dominio e sulla violenza. Da decenni stiamo lottando, a partire dal nostro paese, perché questa cultura venga definitivamente superata e sconfitta, per le discriminazioni, le violenze di genere, le disumanità e le disuguaglianze che produce. Come possiamo adesso accartocciare lustri di scelte e di pratiche che la contrastavano e dire che fino ad ora abbiamo scherzato?

È giunta l’ora che l’epica dell’eroe buono, spada sguainata, a capo dell’esercito liberatore, sia configurata nella mitologia fondativa degli albori delle civiltà e traslitterata alla luce degli ultimi secoli della storia umana. A meno che non si vogliano chiudere tutte le porte alla ragione e incorrere nella stessa oscura e ottusa lettura dei fondamentalisti di ogni religione, quando prendono alla lettera i passaggi più arcani di testi sacri, pensando di scatenare la volontà di dio per mani umane, schiumanti di sangue. Tutto ciò venne compreso bene da Jean Amery quando, in prefazione al suo imprescindibile “Intellettuale ad Auschwitz” scrisse, “Talvolta si ha l’impressione che Hitler abbia conseguito un trionfo postumo. (…) la distruzione dell’uomo nella sua essenza”. Prima ancora lo comprese il genio di Cervantes, nelle irraggiungibili considerazioni di Don Chisciotte sulle guerre moderne, le prime fatte di obici e polvere da sparo, e “del braccio infame e codardo” che da allora ha insanguinato funestamente il pianeta.

Altre strade non solo sono possibili ma sono già state praticate, con successo, in tante e diverse parti del globo. Le terribili dittature sudamericane, i generali brasiliani, i Videla, i Pinochet, come sono stati sconfitti? L’Uruguay della lotta alla povertà e dell’affermazione dei diritti civili, le scelte coraggiose ed esemplari della Costa Rica, dall’antica e duratura abolizione dell’esercito alla centralità della difesa dei diritti umani, da dove sono nate? La liberazione del Sudafrica cosa ci ha insegnato? Infine, celebrata ogni anno in tutta Europa, la caduta del Muro com’è avvenuta? Con gli strumenti di morte accumulati per decenni, lungo la guerra fredda, o con la pressione lenta ma imponente di un popolo, unita all’implosione inevitabile di un sistema pieno di crepe e fratture insanabili? Ma anche in tante aree di crisi dove la violenza armata e militare è sempre pronta e all’opera da decenni, dal Myanmar alla Palestina, l’opzione nonviolenta è l’unica che tiene aperte strade di resistenza vincente e possibilità di vie d’uscita. Cerchiamo di imparare le lezioni della storia, almeno di questi ultimi settant’anni.

La scelta della resistenza nonviolenta e senz’armi ha una storia poderosa e lunghissima che ha mostrato la sua forza immensa anche nei momenti più bui passati dall’umanità. Dalle donne di Rosenstrasse, alle innumerevoli vittoriose vicende di tante resistenze al nazifascismo, in primis quella italiana. Ormai la documentazione e l’accurata e interminabile bibliografia su questo terreno hanno fissato punti fermi ed incontrovertibili.

La stessa Hannah Arendt, nel celeberrimo e pluricitato “La banalità del male” ebbe a scrivere: “La storia degli ebrei danesi è una storia sui generis, e il comportamento della popolazione e del governo non trova riscontro in nessun altro paese d’Europa, occupato o alleato dell’Asse o neutrale e indipendente che fosse. Su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università ove vi sia una facoltà di scienze politiche, per dare un’idea della potenza enorme della non violenza e della resistenza passiva, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori”.

In Danimarca la resistenza militare dell’esercito all’invasione tedesca fu pressoché inesistente, tanto che negli USA e in Gran Bretagna venne ad essere in voga con disprezzo patriarcale, maschilismo (e ottusità, come vedremo) la locuzione: “piegato come un danese”. Invece fin dal primo giorno di occupazione l’isolamento dei nazisti fu costante e crescente. Negli anni si organizzarono scioperi, sabotaggi e boicottaggi clamorosi, culminati in un grande e memorabile sciopero generale nel ‘43, arrivando addirittura all’autoaffondamento di gran parte della flotta navale per sottrarla all’utilizzo degli occupanti. Tuttavia l’evento più importante e significativo fu il salvataggio, unico esempio in Europa, della quasi totalità della comunità ebraica danese. Un’operazione durata per tutto il mese di ottobre del 1943 che tenne impegnate centinaia di famiglie e di persone, per il trasferimento clandestino, via mare, nella vicina Svezia, degli ebrei danesi. Operazione su cui si dovrebbero tenere “lezioni obbligatorie in tutte le università”, secondo Arendt. In Danimarca non fu sparato un solo colpo per questo salvataggio.

Naturalmente i commenti e le opinioni dei Rampini, Polito e Fubini vari, condivise e avallate da Corsera, Repubblica e media mainstream, oscurano e cancellano anche solo dalle opzioni possibili questa via. La propaganda bellica non accetta null’altro che se stessa. La scelta della violenza armata e guerrafondaia è l’unica opzione in campo, con due uniche varianti: guerra per procura (che combattano e muoiano – con le nostre armi – solo gli ucraini) o diretta (dobbiamo dispiegare la forza della NATO). Quest’ultima tuttavia, vista la netta contrarietà degli USA, certamente a breve non sarà percorsa, anche se il tifo per il suo dispiegamento urla sempre più forte. Ed è ripugnante prendere atto dello stesso oscuramento di decenni di grandi affari, pacche sulle spalle e minimizzazione, nelle relazioni e nella politica europea ed internazionale, dei gravi vulnus sul rispetto dei diritti e della democrazia, nella gestione della Russia, del despota di San Pietroburgo.

Naturalmente assieme alla resistenza nonviolenta è indispensabile avviare una pressione fortissima, politica ed economica, mirata e tenere sempre aperta la strada diplomatica. Anzi queste due direttrici diventerebbero forti ed autorevoli, e sostenute dalla più ampia opinione pubblica internazionale, proprio in ragione di una forte resistenza non armata in Ucraina, con scelte diffuse di non collaborazione con l’aggressore. Sarebbero il peso e la pressione sull’altro lato della bilancia di un auspicabile negoziato.

Anche se i prezzi potrebbero essere altissimi per una grande parte del continente dobbiamo essere disponibili noi in primis a pagarli. Dovremo essere pronti a rinunciare al gas di Mosca e razionarci l’energia elettrica, se servirà. Pronti a chiudere affari, produzioni e turisti e a mettere in atto le politiche di più ampia solidarietà interna per fiaccare, isolare e portare Putin al ritiro delle proprie armate. Dovremo inoltre solidarizzare in tutti i modi possibili con le opposizioni e il dissenso russo. E tutto ciò sarebbe comunque imparagonabile alle sofferenze odierne del popolo ucraino.

Mi auguro davvero che tra i rappresentanti politici e istituzionali prevalga la ragione e l’umanità in vece del cinismo, del calcolo e dello sprezzo della vita di uomini e donne. Abbandonando e facendo ammenda rapidamente delle pulsioni interventiste e delle richieste di abiura da parte degli uomini e le donne di cultura russe che lavorano nel nostro paese, sconfinate in alcune iniziative vergognose, quanto ridicole, di alcuni sindaci e importanti istituzioni culturali attorno all’arte formidabile germinata in quel paese.

Qualche presa di posizione mi conforta, anche se sono voci ancora flebili, circoscritte. Il sindaco di Brescia, Emilio Del Bono, alcuni giorni fa, durante una grandissima manifestazione contro la guerra in Piazza Loggia, ha detto, tra diversi altri passaggi significativi: “La storia la vincono spesso non i sopraffattori ma i sopraffatti, la storia la vincono i sognatori e gli idealisti. La storia la fanno spesso i testimoni disarmati!”. Questa è la strada!

“Benedetti quei fortunati secoli cui mancò la spaventosa furia di questi indemoniati strumenti di artiglieria, al cui inventore io per me son convinto che il premio per la sua diabolica invenzione glielo stanno dando nell’inferno, perché con essa diede modo che un braccio infame e codardo tolga la vita a un prode cavaliere, e che senza saper né come né da dove, nel pieno del vigore e dell’impeto che anima e accende i forti petti, arrivi una palla sbandata (sparata da chi forse fuggi, al bagliore di fuoco prodotto dalla maledetta macchina), e recida e dia fine in un istante ai sentimenti e alla vita d’uno che avrebbe meritato di averla per lunghi secoli. E quindi, considerando ciò, sto per dire che mi duole nell’anima d’aver abbracciato questa professione di cavaliere errante in un’età così odiosa qual è quella che oggi viviamo; perché sebbene a me non ci sia pericolo che faccia paura, ciò nonostante, mi esaspera il pensare che della polvere e del piombo abbiano a negarmi la possibilità di rendermi noto e famoso per il valore del mio braccio e il filo della mia spada, per tutto quanto il mondo conosciuto. Ma faccia il cielo ciò che crederà, che se riesco nel mio proposito, sarò maggiormente stimato, per aver affrontato ben maggiori pericoli che non quelli ai quali si esposero i cavalieri erranti dei passati secoli.”   

Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, trad. di V. Bodini, Einaudi.

 

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